L’Ode alla Pallavicini nello svolgimento del primo Foscolo (1974)

W. Binni, L’Ode alla Pallavicini nello svolgimento del primo Foscolo, in Aa. Vv., Studi in memoria di Luigi Russo, Pisa, Nistri-Lischi, 1974, pp. 148-203; poi in Id., Due studi critici: Ariosto e Foscolo, Roma, Bulzoni, 1978, e in Id., Ugo Foscolo. Storia e poesia cit., 33-91.

L’Ode alla Pallavicini nello svolgimento del primo Foscolo

L’Ode a Luigia Pallavicini è stata oggetto di una lunga serie di interventi e di interpretazioni critiche (oltre che di commenti puntuali che hanno evidenziato la vastissima base di utilizzazioni-riprese dalla poesia precedente e contemporanea, specie nella zona ravvicinata del secondo Settecento) che hanno variamente portato a distinguerla – al di là del primo e rapido giudizio desanctisiano (accomunante le due odi in una fase di «guarigione» dalla malattia storico-personale dell’Ortis) – dalla maggiore altezza e profondità dell’Ode alla Amica risanata. Tuttavia tale distinzione va, a mio avviso, ancor meglio precisata e il significato e la forza e il limite della prima Ode vanno meglio collegati alla sua precisa collocazione entro la spirale di sviluppo della personalità del Foscolo in anni decisivi e foltissimi prima della piú forte unificazione della sua poetica dopo la conclusione dell’Ortis 1802, nella doppia via della grande ode e dei sonetti maggiori e nella loro convergenza verso la formidabile presa di coscienza poetica rappresentata nel 1803 dal Commento alla Chioma di Berenice (e specie dal fondamentale Discorso IV con la sua poetica del mirabile e del passionato e con la sua duplice e unitaria proposta di una poetica personale e di un vero e proprio manifesto letterario «italiano» con tutte le loro implicazioni politiche, etiche, filosofiche). E tale studio (tanto meglio attuabile e funzionante entro un’intera nuova monografia foscoliana) può ben servire, ripeto, a meglio ridurre la persistente divaricazione di interpretazione dell’Ode, le persistenti oscillazioni fra una sua eccessiva riduzione e una sua eccessiva valutazione seppure piú persistente a livello scolastico che a livello critico: quella eccessiva valutazione in chiave psicologica e realistica e in chiave di esaltazione iperbolica della «bellezza immortale» che ha piú facilmente potuto provocare la nota dissacrazione foscoliana da parte di Gadda, in gran parte puntata (anche nel titolo) proprio su questa ode (Il Guerriero, l’Amazzone, lo Spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo[1]).

Andrà anzitutto richiamato, in uno strettissimo riassunto, il precedente lungo e intricato percorso della formazione e dello sviluppo del Foscolo fra le sue primissime prove poetiche e il periodo entro cui l’Ode alla Pallavicini viene composta. Prima la fase di piú chiaro apprendistato poetico (non senza l’emergere in esso di accenni e note di una prima volontà espressiva in prima persona con anticipi di cadenze, di impostazione di miti e immagini che non rimarranno senza ripresa a successivi livelli di maturazione personale) appunto in quella «Raccolta Naranzi» che rappresenta un primo affiatamento del giovanissimo scrittore con la letteratura poetica settecentesca e particolarmente dell’ultimo Settecento, fra utilizzazioni del classicismo piú idillico, erotico-mitico, edonistico-melodico e di una illeggiadrita sentimentalità preromantica con dietro Metastasio e Rolli, piú da vicino Vittorelli e, piú, Savioli e soprattutto la mediazione classicistico-preromantica del Bertola (con il suo fondo fra gessneriano rousseauiano, younghiano[2]) e riprese del classicismo piú moralistico e grave (Fantoni, Mazza e qualche prima eco pariniana), non senza piú diretti ricorsi al classicismo umanistico e alla poesia latina e greca (elegiaci latini, Orazio, Anacreonte, Saffo).

Ne risultava un incontro centrale di eleganza e di tenerezza, di «anima sensibile» nelle sue componenti di sincerità, di schiettezza sin troppo ingenuamente esibite, e di uno sforzo di stilizzazione elegante e classico-moderna che si avvale del mitologismo piú brillante ed ercolanense del Savioli e di quello piú sentimentalmente intonato del Bertola.

Poi, in accelerazione di esperienze letterarie e di necessità e velleità personali (fra echi di traumi infantili, prefigurazioni funerarie[3] e bisogno e volontà di impegno, di presa di posizione dell’«anima sensibile» e schietta nelle condizioni difficili del proprio tempo e nella situazione piú ambigua e contraddittoria dell’ambiente veneziano), erompe, in modi caotici, farraginosi e convulsi (che sconvolgono il livello medio piú composto della raccolta Naranzi), una innografia enfatica, grandiosa, moralistica, vaticinante (piú significativa per la sua prospettiva generale che per i termini sfocati delle sue applicazioni ideologiche) entro cui il Foscolo accumula e mescola sollecitazioni pariniane, montiano-dantesche, frugoniane e minzoniane, mazziane sul versante di un fare «grande» immaginoso, visionario, vibratamente sentenzioso, in relazione alla sua volontà-velleità di dar voce ad una feconda inquietudine sollecitata per attrito e reazione dalla situazione politica (fra incipiente attrazione della rivoluzione e ripulsa di questa alla luce di resistenze di tipo religioso e sin reazionario, da spiegare in gran parte anche nella situazione complicata ed ambigua della Venezia di quegli anni). Mentre il riemergere doloroso (con dietro chiare sollecitazioni younghiane) del proprio maggiore trauma infantile (la morte del padre) dà luogo ai componimenti centrati su tale soggetto e densi di avvii parziali, ma sempre piú personali, verso il mondo autobiografico-drammatico dei sonetti minori, e l’avvicinamento ai moduli elegiaco-romanzeschi (al centro l’impronta fondamentale di Rousseau, intorno l’esperienza delle elegie preromantiche italiane) corrisponde allo svolgimento dell’«anima sensibile» (rafforzata dall’esercizio di toni forti e impegnati) in una sua piú chiara versione apertamente sentimentale e preromantica nello svolgimento di situazioni narrative amorose-elegiache e dolorose personalmente risentite anche quando partono (In morte di Amaritte) da occasioni e da quella poesia commissionata in cui la volontà di affermazione del giovane letterato (diviso fra bisogno di autenticità personale e necessità di inserimento nell’ambiente veneziano) non cede mai ad un lavoro tutto privo di ragioni personali, cosí come il progresso della sua esperienza e cultura letteraria non è mai puramente e solamente letterario.

Sulla base della presa di coscienza della propria situazione e prospettiva di scrittore portato ad attingere alle varie forme della letteratura e della cultura e ad approfondire la propria personale poetica in tutte le sue implicazioni culturali (donde la forte insistenza sulle linee della morale, della politica, della filosofia, della storia sempre alla luce di una propria meditazione e del proprio «genio»), rappresentata dal Piano di studi della fine del ’96, il Foscolo si muove – in modi sempre piú bisognosi di originalità, novità, impegno nel proprio tempo e nell’allargata gamma dei suoi sentimenti nell’esplosivo diramarsi delle sue tendenze – verso il drammatico e convulso Sturm und Drang del Tieste (in cui il fondo piú agitato, cupo, ossessivo di traumi profondi accentua i toni della fondamentale esperienza alfieriana, attinta ora, e per il futuro, nella sua feconda lezione etico-politica-esistenziale entro un clima tragico dominato da «notte» e «morte»), verso l’accordo personale-universale di una formidabile spinta alla vita e di un’attrazione altrettanto profonda della morte: dagli Sciolti al sole (dove il preromanticismo italiano offre al poeta la sua versione di tensione estrema nel modello dell’Ossian cesarottiano), verso il complesso ed espanso fare poematico di La giustizia e la pietà (con il ravvicinato recupero di modi montiani e generalmente neoclassici nella esaltazione di valori già vagamente aperti alla tanto piú tarda e matura poesia delle Grazie), verso l’esercizio sonettistico come espressione concisa del proprio prepotente autobiografismo, anche se ancora piú trattenuto da remore e condizioni di piú aperto languore e di estasi paesaggistico-sentimentali, verso i componimenti poetico-politici in cui la ormai chiarita posizione ideologico-politica «giacobina italiana» cerca di tradursi in un «odeggiare» grandioso (Bonaparte liberatore, Ai novelli repubblicani) preso fra una visione vitale di espansione inarrestabile della libertà e un profondo richiamo eroico-catastrofico, agonistico-pessimistico che ben rivela l’essenziale interno dibattito foscoliano tra tensione affermativa e vitale, e crisi pessimistica e attrazione del gesto magnanimo affermativo-autodistruttivo.

Convertita l’attività poetica piú impegnativa e predominante in un’attività politica militante di oratore, di giornalista (lo stesso unico sicuro prodotto del ’98, il sonetto Per la sentenza capitale della lingua latina, è in realtà anzitutto un intervento politico) – fra l’oratoria dei circoli veneziani e milanesi e il giornalismo milanese e bolognese –, in cui si svolge la complessa, interessantissima posizione politica del Foscolo, e della sua nozione dell’intellettuale, nel periodo cosiddetto giacobino, preparato tanto materiale vissuto o meditato nelle vicende di questi anni decisivi (sí che il Foscolo, malgrado ogni suo successivo cambiamento, si sentirà sempre «figlio della rivoluzione» e sempre sottolineerà la funzione politica della sua professione letteraria) che poi servirà, insieme a quello successivo nel 1799-1801, a nutrire il romanzo ortisiano nella sua intera redazione 1802, il Foscolo sentirà il piú forte richiamo della letteratura nella impostazione dell’Ortis bolognese del ’98.

Rifluivano nella volontà di costruire un romanzo autobiografico epistolare l’intuizione (non importa se veramente, almeno in parte, realizzata) dell’enigmatico romanzetto epistolare Laura, lettere, le precedenti esperienze elegiaco-narrative, gli stimoli ricchi delle letture che solo in parte avevano già sorretto operazioni scrittorie foscoliane (specie le letture della letteratura romanzesca europea, che vanno valutate anche nell’ampliarsi dell’orizzonte foscoliano da italiano ad europeo entro la volontà di creare un romanzo italiano, recuperando tecniche narrative europee, ma anche tutta la vasta acquisizione di testi poetici aggiornati fino a inedite composizioni montiane). Tutto in questo romanzo incompiuto si legava ad una posizione centrale della personalità foscoliana che trasferiva ora gli effetti traumatici del dramma di Campoformio in un provvisorio bisogno di distacco e rifiuto della diretta linea politica, in un provvisorio rifugio rousseauiano-wertheriano nel «seno della natura» e in un piccolo ambiente di schiettezza di affetti e costumi (una delle punte piú chiare del rousseauismo foscoliano), in cui (sullo sfondo di un paesaggio prevalentemente idillico-elegiaco) domina una passione che nasce per lento attrito con sentimenti e personaggi-«anime belle», tutti simpateticamente atteggiati e risentiti, in un clima, ripeto, prevalentemente idillico-elegiaco, che involge nel suo impasto piú edonistico le punte piú acerbe di una specie di zibaldone meditativo pessimistico e materialistico (la parte piú ardente e geniale dell’Ortis bolognese) proteso a preparare quello scontro piú drammatico fra illusioni, attrazione vitale e sentimento della morte liberatrice e annullatrice delle delusioni e del destino avverso di un eccezionale Pechvogel, che solo nell’ultima parte del romanzo interrotto vien profilandosi (al momento pur languido e libresco della partenza di Jacopo dai colli Euganei e della sua lettera di addio a Teresa) come conclusione necessaria dell’opera, per ritornare, con ben diversa maturità e pienezza di raccordate ragioni personali, storiche, politiche, esistenziali, a farsi centro propulsore del grande Ortis milanese. Nell’Ortis bolognese la spirale del percorso foscoliano sembra come arretrare di fronte ad un’aperta tensione drammatica e sviluppare, assai coerentemente al centro dell’anima ardente (ma ancora intrisa di correttivi di «anima bella» e «sensibile») e alle componenti di un gusto di epitome delle condizioni letterarie tardosettecentesche, motivi di piccolo realismo domestico, di precoce humour fra wielandiano e sterniano (la lettera della dama padovana[4]), di illeggiadrito sentimentalismo con un fondo di preziosismo classicistico-rococò e di languore preromantico (la lettera di Teresa all’arpa).

Sull’interruzione dell’Ortis bolognese si apre la fertilissima e complessa zona fra Ortis e Ortis (Ortis bolognese 1798 e Ortis milanese 1802) entro la quale prende collocazione, giustificazione, valore l’Ode alla Pallavicini. Basti qui richiamare le linee essenziali sullo sfondo e sull’intrecciarsi di un progredire di Erlebnis totale fra vicende di vita[5], esperienze letterarie, culturali, ideologiche, politiche (l’approfondirsi della lettura dei classici, degli scrittori contemporanei, l’approfondirsi della meditazione sui pensatori del secolo XVIII con il lento digradare dell’originario rousseauismo a favore di nuovi impulsi di tipo storicistico e materialistico, la maturazione tormentata del pensiero politico fra spinte idealistiche e spinte realistiche crescenti, legate, con prospettive piú misurate e slanci utopici, alla viva esperienza degli avvenimenti militari e politici, fra la consumazione del periodo «giacobino» e il consolidarsi del dominio napoleonico, con l’intricato nodo della crescente istanza nazionale e la sua effettiva difficoltà di affermarsi nel contesto della politica direttoriale prima e napoleonica poi), e l’irraggiarsi, in parte coevo, in parte cronologicamente graduato, di prove scrittorie fra fervida eloquenza e poesia nuova, fra prove di toni di humour e di suggestione allusiva, rinforzi del tono drammatico-lirico fondamentale, aperture prima parziali, e poi piú alte e sicure ad alternative di malinconia e luminosa serenità.

La linea centrale e predominante (anche quando vale piú per contrasto e dialettico rapporto che non come Leitmotiv scoperto) è certo rappresentata da quella autobiografico-drammatica, che, partendo dalla sua piú gracile e incerta delineazione entro l’Ortis bolognese, si esplicita, in tutta la sua dirompente complessità, nel grande esito terminale di questo periodo e cioè nell’Ortis milanese, al di là del quale – e solo al di là del quale – può profilarsi la duplice e assai collegata via di rinnovamento poetico dei sonetti maggiori (il dramma rivisto entro una dimensione evocativa sintetica, entro lo sguardo lungo e profondo del poeta che ricostruisce un mito intero della propria storia e lo sigla con il senso nobilitante e sicuro del destino universale degli uomini alleggerendolo solo cosí delle sue punte piú aspre e particolari) e dell’ode All’amica risanata in cui la rivincita della vita e la sfida al tempo e alla morte erano assicurate dalla certezza dell’illusione-valore della «aurea beltate» e della superiore forza di una poesia consapevole di se stessa e del suo valore di poetica nuova interna alla stessa poesia.

Ma per giungere alla prova essenziale del suo grande libro di rottura e di vera, non frivola «avanguardia» (tale è l’Ortis milanese entro le condizioni della letteratura italiana), per raggiungere una rappresentazione drammatico-narrativa di se stesso e del proprio tempo sofferto, che coordinasse entro un progressivo ritmo catastrofico gli anelli di una complessa denuncia e protesta (e germinale impostazione di motivi salvatori) a livello personale, storico, politico esistenziale[6], il Foscolo dové – proprio fra Ortis e Ortis – irraggiare la sua complessa esperienza-espressione (poi riassorbita in gran parte entro l’Ortis milanese) nella linea ironico-allusiva del Sesto tomo dell’io, nella linea intermedia e folta delle lettere all’Arese (fra biografia, autobiografia e romanzo abbozzato, fra esasperazione e distacco), sulla linea dei sonetti minori e piú ortisiani (frammenti autobiografico-drammatici liricamente sistemati in strutture ardite di esuberanza compressa e fatta esplodere entro le linee strette di un sonettismo nuovo anche se alimentato dalla formidabile lezione dei sonetti alfieriani), sulla linea momentaneamente e apparentemente piú isolata proprio dell’Ode a Luigia Pallavicini.

Ecco: a mio avviso una interpretazione corretta di questa ode non può non partire dalla constatazione della sua nascita e funzione entro il fascio irraggiato di linee che si muovono fra Ortis e Ortis e che nell’Ortis milanese si risolvono per appoggiare poi (attraverso l’operazione di sintesi ardente costituita da quel libro) il rilancio – sempre mediato e condizionato dalla stretta ortisiana – di elementi e motivi che da quel libro fuoriescono potenziali e filtrati verso il futuro aperto della successiva e piú unitaria linea della poetica foscoliana.

Interrotto bruscamente l’Ortis bolognese al momento dell’addio a Teresa e dell’abbandono dei colli Euganei (e cioè quando il romanzo originario veniva accumulando gli elementi piú drammatici inerenti allo schema fissato comunque dal titolo di Ultime lettere di Jacopo Ortis e non poteva quindi non concludersi col suicidio, anche se verosimilmente in un clima diversamente intenso da quello della grande seconda parte dell’Ortis milanese), il Foscolo, preso nel movimento attivo delle vicende militari provocate dall’invasione degli Austro-Russi e dal loro avvicinarsi a Bologna, abbandona la letteratura del cui ulteriore esercizio da parte sua non abbiamo attualmente prove definitivamente sicure (i sonetti amorosi del ’99 di cui parlò il Carrer?) e solo verso la fine dell’anno, giunto a Genova, dopo il passaggio variamente documentabile fra Emilia-Romagna, Toscana, Italia settentrionale, in rapporto alle battaglie e ai movimenti militari delle truppe cisalpine e francesi, egli si applicò alla redazione di due brevi, ma importanti scritti politico-pragmatici che ce lo mostrano interamente preso da una estrema passione politico-nazionale in un tentativo supremo di intervenire in prima persona nelle vicende politiche a livello di interessi soprattutto italiani, ma non solo italiani.

Si tratta, come è ben noto, del Discorso su l’Italia, dell’ottobre 1799, e della nuova dedica a Napoleone dell’Ode Bonaparte liberatore (ode che in questo momento subisce correzioni e implica un momentaneo esercizio di revisione poetica del componimento del ’97 sempre in una direzione oratoria-pragmatica congeniale allo stesso indirizzo delle due prose citate[7]).

Tutti e due gli scritti (che meriterebbero in altra sede tanto piú attento esame per l’evoluzione della posizione politica foscoliana non in astratto, ma entro le concrete condizioni storiche) valgono qui per noi a misurare l’estrema punta della volontà foscoliana di intervento attivo nella situazione storica, l’estremo profilo dello scrittore militante tutto converso, pur con le armi affilate della prosa solenne ed elaborata di tipo tacitiano, nel suo impegno suscitatore, ammonitore, addirittura direttamente pragmatico. Il Discorso rappresenta un’iniziativa tanto coraggiosa e originale quanto a suo modo utopistica nel proprio estremo realismo e nella fiducia foscoliana nella forza (egli si rivolgeva al generale francese Championnet[8] – prima aveva pensato al Moreau – perché in quel momento comandante dell’armata d’Italia e quindi detentore della forza armata francese in Italia e capace di agire efficacemente e prontamente al di fuori delle incertezze e lentezze degli organi esecutivi e legislativi di Parigi[9]) e prospetta vigorosamente l’unificazione e l’indipendenza dell’Italia (attuata con la guerra e con l’estensione di una specie di repubblica «ambulante», iniziata con il campo armato della Liguria e sancita dalla convocazione autoritaria, da parte del generale-despota provvisorio, di una Convenzione italiana in cui potranno finalmente comparire quegli «italiani di grande carattere che si sono nelle passate rivoluzioni o ritirati, o pochissimo manifestati, o affatto nascosti, sdegnando di sottomettersi alla tirannide dei proconsoli francesi e alla servile insolenza de’ corrotti Italiani loro ministri») come una necessità, per la Francia in pericolo, di avere nell’Italia una repubblica alleata «potente» «indipendente» (diversamente da quello che era stata fino allora, quando – sempre per ragioni storico-politiche ben comprese – «i Francesi furono conquistatori e gli Italiani conquistati: i nomi nulla rilevano: quanto gli uni opprimevano, tanto gli altri abborrivano»[10]). La nuova dedica dell’Ode, subito prima del colpo di stato del 18 brumaio, associa – senza farci cadere nelle vecchie designazioni del «Catone cortigiano» – un invito, sempre realistico, a Bonaparte di salvare l’Italia invasa e di farsi «despota» per rifondare piú duraturamente la libertà repubblicana italiana (cancellando cosí l’onta del trattato di Campoformio che «trafficò la mia patria, insospettí le nazioni e scemò la dignità al tuo nome») e l’avvertimento (ahimè quanto coraggioso, ma idealistico e moralistico!) di non dissociare «virtú e potenza», di non farsi, come Cesare, dittatore del «mondo», appellandosi alla «severa posterità» e alla propria qualità di nuovo «Tacito» e di voce della verità[11].

A questo punto la delusione della mancata risposta dello Championnet (delusione ben evidenziata nella lettera al Bossi da Nizza, del 10 gennaio 1800, dove a proposito della morte per malattia dello Championnet il Foscolo commenta amaramente «Perché non moriva quattro mesi prima!...»[12]) e il contraccolpo del 18 brumaio dovettero fortemente influire sull’animo del Foscolo, indurre il poeta a interrompere un’attività politica portata cosí avanti (anche in senso politico-sociale) nel periodo giacobino[13] e dimostratasi cosí inutile, indurlo a rinchiudersi nelle sue fosche meditazioni accresciute dalle drammatiche penosissime condizioni personali e dallo spettacolo del trattamento riservato dai Francesi agli esuli italiani, alle vittime della libertà italiana[14]. E se in un primo tempo, nel primo soggiorno genovese, si può ipotizzare una certa partecipazione del Foscolo alla vita dei clubs patriottici e repubblicani genovesi (ai quali certo egli era ben noto anche per i suoi ricordati interventi con il Discorso e la ripubblicazione dell’Ode a Bonaparte con la nuova dedica, subito segnalati con consensi e alta stima dai giornali genovesi[15]), mi par certo che egli successivamente si allontanò provvisoriamente da ogni vera attività politica oratoria e scritta[16], tutto preso dalla propria difficilissima situazione che lo fece a lungo cercare di trasferirsi a Parigi abbandonando la Liguria e che poi, non potendo realizzare questo desiderio, lo fece decidere per un’attività militare che diventa predominante durante i restanti mesi dell’assedio di Genova.

È a questo punto (e verosimilmente nella primavera del 1800, dopo i precedenti tentativi politici dell’autunno 1799, il suo soggiorno a Nizza e la ripresa dell’attività militare) che si può collocare la composizione dell’Ode alla Pallavicini, nata come si sa da un’occasione precisa, da un’impresa poetico-galante, che accomuna il Foscolo (come poi meglio vedremo) ad alcuni suoi commilitoni cisalpini ed esuli veneti, suoi amici e compagni di idee e di sventura, ma che piú intimamente è sollecitata da una specie di risposta che il poeta dà, con tale sua opera, alle sue condizioni personali-storiche, al drammatico disagio in cui vive, ed entro la piú generale situazione della profonda spirale di svolgimento della sua poesia nel complicato periodo di passaggio fra Ortis e Ortis.

Una risposta che, valutabile come molla centrale della genesi dell’Ode, ben si inserisce nello svolgimento foscoliano di questo periodo e nelle ragioni della sua complessa poetica, appunto considerandola come risposta (tutta arricchita e sostenuta da componenti già vive e ora fattesi piú forti nella personalità foscoliana, e parzialmente espresse in precedenti esercizi artistici) ad una situazione di supremo disagio personale-storico e di impasse ideale, ad una condizione di suprema insecuritas accresciuta dalla vita di guerra, dal continuo presentarsi del rischio della morte, mentre la stessa vita cosí provvisoria e l’attrito con l’esercizio del rischio esaltavano il sentimento della vitalità provocando un movimento alacre di impulsi vitali, un bisogno di risposta vitale-poetica al dramma vissuto personalmente entro la situazione di nuovi disinganni, di tragiche incertezze sulla sorte dell’Italia e del processo rivoluzionario, di cocenti verifiche della lotta fratricida fra Italiani (uno dei traumi profondi del Foscolo di questi anni), di vissuta esperienza delle difficoltà della città assediata e colpita dalla fame e dalle epidemie, e pur insieme capace di offerte sollecitanti nell’intreccio di guerra e di persistente volontà vitale specie nei saloni eleganti delle famiglie aristocratiche e alto-borghesi di Genova, nei quali gli ufficiali-letterati della Cisalpina trovavano facile accoglienza e occasioni di vita mondana-socievole e sin letteraria.

L’Ode si configura cosí, a mio avviso, in una singolare direzione di slancio vitale-poetico, in un singolare riflusso di vitalità e di bisogno di poesia che tale vitalità traducesse nelle sue forme piú fervide, eleganti, edonistico-brillanti e in un gusto insieme schietto e compiaciuto dell’aspetto vitale della bellezza femminile, in una disposizione poetica tutta fuori delle componenti drammatiche foscoliane, fino al rischio di un abbandono edonistico-estetistico controbilanciato e dialetticamente giustificato dal nesso profondo con gli elementi drammatici cui esso risponde, e sostenuto da un controllo e da un dominio che comportano, in quell’acceso abbandono al ritmo vitale-poetico nella sua configurazione di immagini e moduli eleganti e brillanti, nella sua stessa tematica di inno alla bellezza (come componente della vitalità impulsivamente recuperata e contrapposta al premere del dramma), elementi di compiaciuta consapevolezza, di sorriso, un atteggiamento fondamentale di disponibilità di componenti tematiche, stilistiche, figurative, linguistiche, adibite, con già notevole fermezza di mano e con superiorità, ripeto, di consapevolezza, allo svolgersi vario ed organico di un inno lieto, mosso, brillante. In questo il Foscolo poteva giocare sui tasti del complimento galante, del creato e gustato spettacolo della bellezza, della falsa concitazione realistica, dell’ambigua partecipazione e trepidazione sentimentale, con una ricchezza di sfumature e una centralità di direzione che rivelano una capacità poetica maturata e nuova anche nell’uso di una tematica suggerita dall’occasione e di un repertorio letterario-mitologico di ascendenza tardosettecentesca fortemente posseduto e assimilato dal Foscolo e giocato con forte perizia e consapevolezza della sua particolare destinazione. Sicché l’ode non va, a mio avviso, né interpretata come una regressione al Settecento e una raffinata e fredda «collana di cammei» o un’esibizione libresca di un possesso letterario (e neppure come una pura parentesi occasionale-mondana), né interpretata come una poesia centrata nella rappresentazione realistica e nella interpretazione psicologica della vicenda occasionale o come un inno profondo alla bellezza «deificata» e salvata dal suo pericolo di distruzione, in una prospettiva persuasa e intera di un processo poetico di creazione di un mito-valore (di «guarigione» e di salvezza sicura) che potrà esser invece piú giustamente verificato nel caso della tanto maggiore e diversa ode All’amica risanata.

Per comprendere le ragioni della genesi e della poetica dell’Ode a Luigia Pallavicini bisogna dunque aver bene considerato il momento dello sviluppo foscoliano in cui l’ode si inserisce: momento piú generale del movimento dinamico della personalità foscoliana e momento particolare propizio che di quel momento piú generale rappresenta una piú ravvicinata e concreta condizione (alla luce di una metodologia «antipuristica» tanto non paurosa di contaminazioni biografiche quanto attenta ad evitare un duro determinismo). La condizione del Foscolo nel periodo genovese (specie dopo il primo soggiorno nella città ligure e il doloroso, tormentato confino nizzardo) è quella di un intreccio complesso fra rinnovate esperienze delusive personali e storiche, la rinnovata e sofferta esperienza dell’esule veneto e cisalpino colpito dalla trascuranza dei francesi verso i patrioti italiani, il disinganno delle speranze riposte nei propri tentativi di incidere nella storia attuale con i suoi scritti politici, la propria stessa esperienza di miseria e di insicurezza (fino al balenare di quello che piú tardi nel sonetto Alla Musa sarà chiamato – in rapporto alle «pensose membranze» del passato – «del futuro il timor cieco»), fra persistente (e in parte necessaria) partecipazione alla lotta armata contro le truppe della coalizione reazionaria e delle bande degli insorgenti, accanto ai Francesi, malgrado tutto considerati pur sempre inevitabile sostegno delle pur affievolite e deluse speranze «italiane» (con l’inerente trauma della guerra fratricida, dello stesso orrore per la guerra, effetto del belluino, atavico istinto ferino degli uomini e d’altra parte, insieme, stimolo del coraggio virile e della sfida alla morte, densa rappresentazione della stessa morte e della labile caducità della vita degli uomini), fra impeto bellicoso, doveroso ed eroico, e rimbalzo del piú forte istinto vitale, confortato (e qui basti accennare alla condizione di fondo senza abbandonarsi ai minimi particolari di cui si bearono gli studiosi del Foscolo fra «armi e amori») da quegli aspetti di vita socievole, elegante che la Genova assediata pur offriva nel quadro di una città assediata, affamata, invasa dalle epidemie, politicamente scossa dai contraccolpi del 18 brumaio[17], sconvolta dal crescente malcontento delle classi subalterne tanto piú esposte alla fame e alla miseria[18], eppure capace (nei suoi strati sociali superiori) di una avidità di feste, di socievolezza, di vicende galanti, di esercizio di gusti alla moda, con cui quel settore della società genovese cercava di evadere dalle strette dell’assedio e delle vicende belliche[19].

In quella società elegante trovavano facile accesso gli esuli di altre parti d’Italia, per lo piú ufficiali delle truppe cisalpine e insieme cultori piú dilettanteschi o piú professionali di letteratura, fatta valere, in quel contesto, come mezzo di evasione dal clima tetro dell’assedio. Sí che, nei giornali genovesi del periodo dell’assedio, frequenti sono le inserzioni e gli annunci non solo di feste e mode eleganti delle donne genovesi (fra ironia, punte di severità «repubblicana» e compiaciuto rilievo di una vita che seguitava, malgrado tutto, a svolgersi nella città assediata), ma di componimenti «poetici» ora intonati alla retorica «repubblicana» ora, e piú frequentemente, intonati ad una sorta di accompagnamento, ornamento, distrazione di questa vita socievole dei salotti delle dame-cittadine ospitalmente attente e sensibili alle cure galanti loro rivolte dai giovani combattenti e dai patrioti dediti anche all’omaggio della loro bellezza.

A volte si trattava di letterati dilettanti piú oziosi e parassitari, come il Petracchi con la sua Galleria di ritratti delle dame genovesi piú in vista e con la sua raccolta di Poesie leggiere (commenti pettegoli dei flirts e della galanteria di quella società), a volte si trattava di letterati piú provveduti e insieme impegnati nelle idee politiche e nelle vicende militari: il caso del Ceroni con il suo Pappagalletto che, in una trasfigurazione – di dubbio gusto e di ispirazione fantoniana – di uomini e potenze in uccelli, assortiva preoccupazioni civili e storiche con quadretti galanti di una cronaca mondana essa stessa non priva del pettegolezzo salottiero. In tal clima si inserisce la piccola raccolta di componimenti poetici, Omaggio a Luigia Pallavicini, frutto di un’impresa poetico-mondana di un piccolo gruppo di commilitoni ed amici, uniti da simili idee politiche, da simili condizioni di vita e da un generico legame di letteratura e di gusto.

Si trattava appunto del Foscolo e, molto verisimilmente, come vedremo, del Gasparinetti, del Ceroni e del generale e giacobino Fantuzzi, tutti «cisalpini» e addirittura esuli veneti, accomunati anche (specie i primi tre piú letterariamente educati, seppure, è chiaro, con ben diversa preparazione e genialità nel caso del Foscolo: il Fantuzzi poi si limitò a presentare la raccolta con pochi versi sbrigativi dichiarandosi inesperto di poesia) da una lata educazione e direzione di prevalente gusto neoclassico, valido (con diversissima consapevolezza e forza di fronte alle forme del «facilismo» meridionale di origine metastasiana che pur portava l’esigenza importante di una comunicazione piú popolare e pedagogica) ad assicurare una forma di impegno letterario piú arduo che presupponeva non tanto una assoluta «separatezza» della letteratura, quanto la volontà di un’educazione alta e classica, il rifiuto di una volgarizzazione, avvertita come la perdita di valori alti nel loro fondo di istanze laiche, di umanità classico-repubblicana, anche se nei suoi aspetti spesso di edonismo incoraggiante la vitalità e l’esercizio di una mondanità preziosa e ingentilitrice, con la forte presenza di un culto erotico della bellezza, oltreché una difesa della lingua italiana nelle sue forme elette di fronte all’«invasione» della lingua dei protettori-oppressori[20].

Chi rilegga insieme i componimenti dell’Omaggio[21] noterà facilmente (anche se ovviamente con la diversità essenziale che corre fra quelli altrui e l’ode del Foscolo, tanto piú evidente proprio nell’avvicinamento e nella comunanza di una certa base di gusto, di poetica, di materiale direzione tematica) una certa comune atmosfera e una forte somiglianza di temi e di prospettive rispetto all’occasione, all’origine dell’Omaggio[22]: la rappresentazione, ovvia, dell’imbizzarrirsi del cavallo e della caduta della Pallavicini, il motivo della gioia maligna delle altre dame e della loro invidia per la immaginata riacquistata e superiore bellezza della loro rivale, il motivo del pericolo della bellezza della donna omaggiata.

Cosí il motivo del futuro, ma sicuro risorgere della bellezza della Pallavicini e il motivo della gioia invidiosa delle altre dame, destinata ad esser delusa, si affacciano e poi si espandono nel rinforzo di una similitudine finale negli Sciolti del Ceroni[23] («ti guardi e frema / la mal repressa femminile invidia» e «tu dal sanguigno letto / alzati, Elisa, d’amorosi rai / tutta cosparsa, e di candor celeste / isfavillando, a rallegrar lo spirito / de’ solleciti amici; Egizia palma / cosí, se al suolo gli orgogliosi rami / pesta curvò da grandine nemica, / nel nuovo Aprile, al lusingar dell’aura, / s’abbella; veste le risorte chiome / di sue vivide fronde, e piú superba / all’altre piante in sua vaghezza insulta»), e ritornano nell’ode del Gasparinetti[24] in modi piú insistiti e ripetuti sulla base meglio organizzata del «pericolo» corso dalla Pallavicini che, mentre fa piangere «gli amator devoti» e li induce ad alzare «incensi e voti», suscita la gioia maligna delle rivali: «Sí paghe siete, o Liguri / Dive, offuscato è il volto, / che in sé avea delle grazie / il paradiso accolto; / langue muta la Bella, / e accerchiato di tenebre / langue il mondo con Ella. / Ma non temete, o tenere / alme d’amor seguaci, / berrete ancor dolcissime / de’ begli occhi vivaci / le delizie e le spemi, / i cari inviti taciti / ai piaceri supremi: / Cosí talora pallido / raggio di sol trapela / dal sen di nube insolita, / che mesta il copre, e vela; / e cosí piú ridente / vince la nube, e fulgido / esce a bear la gente». Mentre l’altra brevissima ode-canzonetta dello stesso Gasparinetti[25] è tutta impostata sull’incontro del «periglio» della Pallavicini e dell’invidia e gioia delle altre belle, battute e umiliate dal ritorno della bellezza nella loro superiore rivale.

E infine ancora il Ceroni (ché in realtà due sono i rimatori in gara con il Foscolo, dato che il Fantuzzi apre la raccolta con un brevissimo componimento piú generico di «omaggio» e vi si dichiara non poeta e presentatore degli «ingenui versi teneri» dei veri autori dell’omaggio poetico, «spirti alle muse cari»[26], cui egli demanda di esprimere quello che egli vorrebbe e non sa dire) nell’inno finale[27] (costituito con vari metri, che vogliono assecondare il tono dei vari momenti della vicenda) conclude con il solito tema del risorgere futuro, ma sicuro della bellezza della Pallavicini in contrasto con l’invidia delle altre dame genovesi:

Ma l’inamabil orma resterà

sul viso pria sí armonico, e gentil?

E del basso trionfo riderà

la satollata invidia femminil?

Ahi! su quel volto,

che tutto il bello

ha in sé raccolto,

veglia il drappello

de’ vezzi teneri,

e delle care

leggiadre Veneri.

E sorgerà, qual dopo il nembo appare

fra stella, e stella

diradatrice della notte bruna

piú candida, piú bella

l’inargentata luna;

alza lo sguardo il passagger, che oltraggio

di grandine temea,

e benedice il grazíoso raggio

della risorta Dea.

Cosí l’incontro e il rapporto fra il tema del pericolo della bellezza, quello dell’invidia e della gioia maligna femminile, quello della risorta bellezza della Pallavicini che umilierà quella gioia, son ben presenti nei componimenti del Ceroni e del Gasparinetti, mentre – ovviamente d’obbligo in relazione all’occasione – il tema del cavallo imbizzarrito e della caduta della donna fa quasi sempre da centro in questi componimenti suggerendo a volte (come avviene negli altri temi) consonanze con l’ode foscoliana, persino di parole, di atteggiamenti, di prospettive di immagine (certo piú abbozzate, come un po’ tutto in quei componimenti è piú incerto, sfocato, con molto di sciatto, di provvisorio, di maldestro) che si potrebbero anche minutamente rilevare, ma che insomma è interessante generalmente ricordare nel loro insieme, per riportare piú all’interno e piú in alto l’operazione poetica del Foscolo, rispetto alla generale similarità di temi, riferimenti immaginosi, tendenze stilistiche che, piú materialmente considerate, sembrano ridurre lo spazio esterno di totale novità dell’ode foscoliana se riferita solo alla piú estrinseca e materiale condizione dei temi e del generale linguaggio di immagini, di lessico, di figure visive. E proprio cosí invece la vera novità dell’ode è sottratta ad una sua interpretazione soprattutto tematico-contenutistica e la stessa sua ideazione è riportata da questa base di consonanze con un gusto e una direzione artistica e sino stilistica del tempo piú ravvicinato (e nella pressione simile dell’occasione) all’interno di una poetica personale-storica a livello piú profondo che, nella maturata forza organizzativa foscoliana, assume le offerte dell’occasione e della vicenda con le sue allusioni al tema della bellezza offesa e destinata a risorgere come concreto aspetto della vitalità esaltata nei suoi aspetti suggestivi di eleganza, di grazia, di fragilità e volubile psicologia femminile: vitalità che risponde al dramma personale e storico, traducendosi in un ritmo organico e vario, saldo e sfumato, echeggiante di allusioni e di incentivi melodici e visivi entro una dimensione unitaria, ma ricca di disponibilità e di toni fra seri e compiaciuti (serietà proprio nel senso della traduzione della vitalità in quel ritmo poetico, compiacimento che si lega alla stessa libera capacità di rappresentazione mobile, elegante, preziosa della stessa vitalità) mai identificabili totalmente con un maturo, convinto sviluppo del processo «deificante» al culmine di una commossa partecipazione alle condizioni dell’occasione e a una disposizione di vera e centrale ricerca realistico-psicologica. Cosí di questa particolare prospettiva dell’ode foscoliana (insieme piú seria, profonda di quella degli altri componimenti dell’Omaggio e insieme piú capace di sorriso, di gusto compiaciuto di eleganza e di traduzione artistica) è spia anche la piú totale filtrazione mitologica, il rifiuto di ogni vera risonanza di forme poetiche di tipo ossianesco quali ad esempio il Ceroni impiegava soprattutto nei suoi Sciolti, la scelta ben volontaria e compatta della linea centrale della poesia settecentesca (e specie tardosettecentesca) erotico-galante come appoggio della propria trasfigurazione poetica della vicenda, anche se in punti particolari altri modelli e direzioni poterono essere adoperati dal Foscolo come singolare mezzo di falso realismo drammatico, in realtà risolto in forme compiaciute e sorridenti e dunque sempre funzionalmente alla direzione centrale dell’ode, la cui molla è il canto della vitalità che risponde al dramma storico-personale e se ne libera in forme di impeto sorridente e prezioso a cui le abbondantissime sollecitazioni della poesia erotico-galante settecentesca e di un classicismo mitologico ben servono incrementando un clima di eleganza sorridente, di grazia preziosa, di sdrammatizzazione interna del falso realismo e della falsa solennità.

Poiché l’ode è inno alla bellezza-vitalità, alla bellezza femminile nei suoi connotati di eleganza e di incanto siglati dall’espressione classicistico-mitologica, come esponenti di vitalità lieta, sicura, attinta nella freschezza e nella sollecitazione di vita che essa applica in un mondo sentimentale e storico dominato dall’insecuritas e dalla morte, il Foscolo scelse quel linguaggio melodico-visivo, quel ritmo breve e, nella sua ripetizione, uguale, ma celere e alacre. Sicché, ripeto, lo stesso repertorio mitologico (ripreso soprattutto nella sua diretta espressione settecentesca o nelle traduzioni settecentesche dei classici) non mi appare come un bagaglio pesante e frenante, o come un’armatura rigida che l’ispirazione foscoliana cercherebbe, riuscendovi a stento, di sciogliere e di animare, ma come l’appropriato materiale con cui costruire quel ritmo vitale-poetico nelle sue proporzioni e dimensioni gustose, sorridenti, eleganti, ambigue tra solennità ieratica e vero incentivo di letizia, di eleganza sorridente, di rappresentazione a figurine e piccole scene mosse e trascoloranti entro la gamma di una immaginosità alacre e compiaciuta della sua stessa alacrità, letizia, eleganza, e fin della sua stessa ambigua, ironica solennità e ieraticità di culto della bellezza.

Con ciò, si badi bene, non si riduce quest’ode ad una specie di scherzo galante-mondano fine a se stesso, o a un madrigale[28] mitologico-classicistico privo di ragioni interne valide e serie. La serietà consiste nella vita poetica della vitalità riscoperta nel contrasto con il dramma e la morte e nell’averla coerentemente tradotta nelle linee e nelle dimensioni musicali-figurative di un mitologismo prezioso, sorridente, lieto ed ironico, consiste persino nell’impegno con cui il Foscolo porta tutte le sue forze in questa direzione poetica momentaneamente scartando ogni altro tipo di impegno diretto di tipo storico-politico, sentimentale-drammatico, e proprio in tale momentaneo abbandono della vita drammatica autobiografica e storico-politica affermando cosí la sua (in questo momento) serietà di poeta tutto preso in questo particolare impegno poetico: anche se nella dinamica piú generale della sua autobiografia poetica questo particolare impegno vive proprio in quanto dialetticamente in rapporto di contrasto con gli altri suoi predominanti atteggiamenti di poeta impegnato nella storia, da cui poi non manca di rifluire, in questo importante momento di scelta della vitalità, il senso, il soffio animatore di una libertà e di una spregiudicatezza che traggono forza dall’aria di libertà di una civiltà rinnovata, dall’aria di chi vive al di là della rivoluzione e non nell’aria piú rarefatta del Settecento piú cortigiano, piú edonistico-libertino, piú aristocraticamente rigido e privo di sfondi di vita e di esperienze portate nel nuovo tempo dalla nuova libertà e dalle nuove condizioni di vita, di costume, di circolazione di idee e di vita.

È da tale prospettiva, da tale poetica (risposta al dramma nel rilievo massimo dato alla vitalità, alla gioiosa scoperta della bellezza femminile come vitalità nelle sue componenti di eleganza sorridente, di letizia esercitata nel ritmo e nella figuratività, di ambiguo e superiore riporto alla dimensione di miti classici impreziositi e alleggeriti in forme e toni compiaciuti pur con il germe nascente di un processo di nobilitazione della realtà presente nei suoi aspetti di socievolezza mondana, di rito e culto della bellezza come compenso ed esponente di vitalità, in una zona ancora intermedia rispetto alla salda persuasione intima della seconda Ode e in cui ha gioco vitale l’ironia e la sfumatura ironica) che deriva il tipo di utilizzazione massiccia e predominante (e tale da disporre in forme ad essa funzionali anche degli elementi pseudorealistici, pseudodrammatici e pseudopsicologici) della poesia mitologica settecentesca e soprattutto tardosettecentesca con i suoi riflessi di gusto neoclassico fra classicismo rococò e incipiente maggiore compattezza neoclassica (tanto piú chiara e insieme sentimentalmente romanticizzata nella seconda Ode), fra edonismo piú prezioso e piú libero gioco di piacere vitale delle belle immagini mitiche.

Tutta l’ode è intessuta di richiami, di sollecitazioni, di riprese da questa larga zona, da questa direzione poetica fino alle sue piú recenti prosecuzioni senza che con ciò si possa – scambiando le ragioni nuove e foscoliane di questa scelta con una ricaduta foscoliana in precisa zona settecentesca, con una regressione al Settecento e con un’interpretazione di semplice poesia da boudoir e da salotto, di collana di cammei di tipo ercolanense (le interpretazioni di studiosi come il Porena[29] o il Mazzoni[30]) – identificare senz’altro le ragioni di questa utilizzazione con le condizioni stesse della poetica di questa direzione utilizzata.

Né potrebbe ipotizzarsi una semplice composizione a mosaico ed intarsio di tante riprese di immagine, di lessico, di versi e sequenze di versi, ché in realtà la poetica dell’ode è tanto piú originale e innovativa nella tensione vitale-poetica, nel significato che essa ha, e che, a ben vedere, non riprende semplicemente, ma rifonde con una organicità centrale – anche se variata e sfumata nel suo svolgersi saldo ed estroso insieme – tutto il materiale utilizzato, servendosene, anche quando lo fa piú vistosamente percepire, sempre per sue ragioni interne (a correggere ad esempio ogni eccessiva apparenza di intera partecipazione di tipo psicologico-realistico e di processo deificatore interamente partecipato: il caso sintomatico della figurina di Nettuno con la sua falsa solennità ieratica che disturbava il Momigliano nella sua interpretazione psicologico-realistica e nella sua centralizzazione di poesia nella rappresentazione – anche se «limpidamente» riportata in una zona «lontana» – realistica del cavallo impennato[31]) e non solo per esibizione del saldo possesso di tanta letteratura mitologica e di cosí grande ricchezza e dottrina letteraria. Ché anche in quella che può apparire esibizione[32] di possesso di cultura letteraria di tipo mitologico neoclassico, ripeto, c’è sempre, non passività e ritorno all’indietro e semplice prova di bravura o aggressione di un tipo di linguaggio letterario da penetrare e riassumere e piú profondamente vivificare nell’Ode seconda, ma utilizzazione copiosa e funzionale in relazione alla pressione di un impeto e ritmo vitale-poetico che non possono trovare equivalenti – appunto quanto a forza e ritmo – nella zona precedente o immediatamente vicina all’innovazione foscoliana. E mentre l’attrito fra la nuova impostazione foscoliana e le riprese che egli utilizza tanto piú sprigiona una forza nuova di baldanza elegante, di letizia vitale, di duttile sicurezza compositiva e ritmica, la vicinanza di quel materiale e di quella direzione usufruita dal Foscolo – proprio nella sua vicinanza – tanto piú serve a far rilevare lo stacco con cui il poeta indirizzava la sua nuova poesia rispetto all’aria piú chiusa e ormai di per sé ristagnante della zona di gusto usufruita a cosí diverso livello e con cosí diverso scopo pur nei voluti agganci con quella sulla via dell’eleganza, della piacevolezza gustata e gustosa per effetti di elegante forza vitale, di lieve sorriso sfumante e corrodente il senso altrimenti goffo di un vero impegno psicologico e realistico. Sicché la identificazione della base di scelta e utilizzazione della direzione galante, miniaturistica, edonistica del mitologismo e neoclassicismo settecentesco (con le sue propaggini fino a Monti e Lamberti) deve essere criticamente interpretata e fatta valere in rapporto ad un incremento, superiormente utilizzato, della linea tensiva vitale-poetica dell’Ode e insieme a una volontà di correzione, sfumatura, ridimensionamento autentico delle componenti di tipo psicologico (la trepidazione per la preoccupazione della donna circa il recupero della salute e della bellezza) o di tipo realistico e realistico-drammatico o di tipo solenne-ieratico (la rappresentazione, in realtà insieme cosí focosa e compiaciuta, brillante e funzionalmente manieristica del cavallo imbizzarrito, della caduta della donna, della deprecazione – in realtà cosí aleggiante di sfumature di sorriso e di ironia – dell’uso di affidare la fragile bellezza femminile al rischio del cavalcare) che ben si oppongono alla interpretazione univoca, appunto, in chiave psicologico-realistico-drammatica o in chiave di divinizzazione profonda e convinta.

E cosí lo stesso uso massiccio del mito (esclusa del tutto ogni proposta, fatta per dar maggiore serietà all’ode, di un significato mitico-filosofico[33] che contrasterebbe con l’indirizzo dell’ode e con la sua vera «serietà» e magari con il suo limite se vista alla luce del piú complesso, intero, cerchio dinamico dello svolgimento foscoliano una volta che si sia superato l’ingorgo cosí fecondo di forze e linee fra Ortis e Ortis) si giustifica correttamente (entro la spinta mitizzante sempre centrale, ma ancor immatura nel Foscolo) nei compiti che esso assolve in questo componimento di elusione del dramma e di risposta al dramma, come mezzo di distacco dalla immediata realtà e insieme come mezzo di rilevarne in un clima di elegante e ambigua letizia vitale gli elementi piú disposti a ricongiungersi ad un ambiguo regno di fantasia e di immagini liete e siglate da una coerente impronta di ieraticità gustosa e sorridente e perciò ricollegata soprattutto non tanto direttamente alla miticità dei classici greci e latini, ma alle forme che essa aveva preso nella poesia mitologica settecentesca nelle stesse traduzioni dei classici (a mezza via fra la riproduzione dei classici e gusto settecentesco) da parte di traduttori-poeti del tardo Settecento (il caso soprattutto rilevantissimo e presentissimo nell’Ode delle traduzioni del Pagnini da Teocrito, Mosco e Bione o da Callimaco: il Callimaco poi cosí direttamente e diversamente indagato dal Foscolo nel Commento alla Chioma di Berenice).

Come si dispongono e valgono, entro il tessuto dell’Ode, le utilizzazioni e riprese della poesia settecentesca e soprattutto tardosettecentesca?

Non a caso l’inizio alacre ed elastico, gioioso ed elegante utilizza lacerti ben assimilati del prediletto Bertola (da cui riprendeva – oltreché dal Frugoni – l’impostazione metrica), maestro primario del suo primo esercizio-poetico nella Raccolta Naranzi[34], risentita qui nel filone dei suoi componimenti piú classicistici e ricchi di figure mitiche (soprattutto quelle «Grazie» che corrispondevano a motivi del suo Saggio sulla grazia): «Le Grazie il letto apprestano», «Sul talamo beato»[35].

Mentre già sull’inizio e poi su vari punti dell’ode (e specialmente piú in generale nella scenetta-paragone mitologica e nella stessa idea della donna-dea e del culto della bellezza in chiave tanto piú chiaramente galante-mondana con il suo gustoso raccourci di movimento melodrammatico e l’insaporimento visivo ercolanense-rococò[36]) convergono spunti e moduli degli Amori del Savioli.

Cosí sull’inizio converge con quello bertoliano il verso saviolano «Per te le Grazie nutrono»[37] (nonché si può percepire lo stimolo di simili versi «le Grazie in piedi assistano», ecc.[38]) e il gusto savioliano della scenetta-paragone mitologico è incentivo fondamentale all’uso dei quadretti-paragone mitici nell’Ode foscoliana (ma tanto piú mosso, alacre, aerato): si pensi (anche di lontano, per il piú luminoso finale dell’Ode) a strofe a clausola mitologica come questa[39]: «Tal da’ superbi talami / dall’ampia reggia achea / sciolta dal caro Pelope / Ippodamia sorgea». E per i tocchi di culto erotico e galante (specie in rapporto alla redazione originaria dell’Ode prima del rifacimento della strofe nell’edizione 1803) si pensi a versi come questi: «Psiche apparí: prostravasi / la turba al suol devota»[40] e alla generale abbondanza negli Amori dell’uso della parola «sacrifizi» e «voti», come per l’invidia femminile e il suo scorno si pensi a versi come «invidia impallidisce» o «arser d’amara invidia / poi le dardanie spose»[41]. Mentre per la sorridente deificazione della donna soccorrono come base di stimolo (entro una direzione foscoliana che associa e media, nell’Ode, toni ieratico-ironici a piú fresca e libera tonalità di significato della bellezza deificata come traduzione, per ora, della scoperta intuitiva del rapporto fra bellezza femminile, forza della poesia che la esalta e della vitalità affermata in risposta al dramma personale-storico esistenziale) moltissimi spunti savioliani: «Oh a me piú Dea che Venere...»[42], «tal che in tal punto apparvemi / men Donna assai che Dea»[43], «Le forme tue risplendono / di non mortal bellezza»[44]. E per la stessa momentanea infermità della donna o per la rappresentazione del volto di Diana ferita e del suo pallore si ricordino versi che insistono sul pallore del volto femminile: «cosí velato e pallido»[45], «vive il dolor che pallido / a te nel volto uscia»[46], «vedrai le guance rosee / d’un bel pallor velarsi»[47].

Come è ben noto anche il Parini è qui risentito e ripreso (a parte il piú chiaro sostegno all’elemento di ironia che colora la deprecazione costruita sul verso del Lamberti «Pèra, ecc.» e nel riferimento centrale pariniano del «torna a fiorir la rosa / che pur dianzi languia» dell’Educazione usato in riferimento al volto della donna ferita e ammalata: «ché or non vedrai le rose / del tuo volto sí languide»[48]) soprattutto nella direzione della sua poesia galante-neoclassica (e lo stimolo fondo del tema del «grato della beltà spettacolo» del Messaggio) attraverso il paragone mitico-divinizzante della donna (nel Pericolo) «Parve a mirar nel volto / e ne le membra Pallade / quando, l’elmo s’è tolto, / fin sopra il fianco scorrere / si lascia il lungo crin», che tanto piú direttamente si riflette nell’impostazione piú statica (o solo mossa nello sciogliersi delle trecce) della figura femminile umana-divina dell’originaria stesura del 1800: «Il tesor di tue folte / ambrosie trecce agli omeri / molle scendea; disciolte / cosí cascando ondeggiano, / se Palla d’Ascra al fonte / toglie l’elmo dal fronte».

Ma proprio a proposito di questo raccordo pariniano-foscoliano (già portato nel 1800 dal Foscolo a un movimento interno piú forte rispetto alla base pariniana, coerentemente alla sua poetica che chiedeva figure piú mobili e ritmo piú celere e alacre) si deve notare come piú tardi, nel 1803, il Foscolo proprio su questa immagine-paragone piú fortemente intervenisse allungandolo in due strofe e introducendo il motivo della danza (comune all’Ode All’amica risanata) e risalendo (con un’espansione dell’immagine di Pallade «al fonte» di nuova ricchezza poetica) a quell’appoggio classico (l’inno a Pallade di Callimaco) che già era servito – estremamente riassunto – allo stesso Parini e che il Foscolo riprese dalla traduzione del Pagnini[49]. Entra cosí in gioco nella trama di riprese dell’Ode un celebre, e dal Foscolo molto considerato, traduttore tardosettecentesco di classici (e dunque nell’Ode il Foscolo volutamente riprese gli stessi classici prevalentemente[50] da una traduzione piú avanzatamente neoclassica, ma non priva di elementi del gusto piú classicistico-rococò, su di una scalatura dunque assai coerente alla scelta di una fondamentale direzione poetica, da un classicismo piú rococò a un neoclassicismo piú maturo): quel Pagnini[51] della cui traduzione degli Idilli di Teocrito, Mosco e Bione egli chiaramente si serví per l’iniziale mito di Venere che imposta la direzione di immaginazione mitologica dell’Ode proseguita fino al piú personale mito conclusivo e geniale di Diana caduta, ferita, riapparsa in cielo con la sua piú splendente bellezza (riprova estrema di una tendenza mitizzante già in atto perseguita con continuità e culminata in una invenzione piú autonoma ed alta, scaturita dall’interno appunto di questo intenso impegno di poesia mitica nella sua scalare dimensione nobilitante-allusiva, sorridente-luminosa).

È noto infatti che il raccordo fra l’immagine di Venere ferita dalla spina e i suoi lamenti e il suo pianto sul corpo di Adone si precisa sulla base dell’idillio di Bione (Canto funebre di Adone morente[52]) nella traduzione del Pagnini (Teocrito, Mosco e Bione, Parma 1780) trasferendo alla ferita Pallavicini e alle cure delle Grazie intorno a lei particolari delle cure spese intorno ad Adone morente da parte di Venere e degli amori:

Venere sparsa le chiome, afflitta, incolta

e scalza va per le foreste errando.

I rovi le tormentano le piante,

e predan l’almo sangue. Ella mettendo

acute strida va per lunghe valli...

... Aspergil anco

e di mirti, e di balsami, e d’unguenti...

Altri in catini d’oro appresta l’acqua,

altri i fianchi gli lava, ed altri a tergo

coll’agitar dei vanni a lui fa vento...

... Adone intanto

non sente piú com’ella morto il bacia...

... Un nero sangue irriga

le sue carni di neve...

Ma l’atro sangue intorno all’umbilico

d’Adone alto s’ammassa, e giú da’ fianchi

sul petto porporeggia...[53].

Linea di poetica savioliana-bertoliana (con alle spalle qualche eco metastasiana[54] e con la piú particolare esperienza pariniana e quella del traduttore Pagnini) utilizzata anche nelle sue propaggini piú ravvicinate e piú toccate dal crescente trionfo del neoclassicismo: per qualche aggettivo e neologismo il Monti dell’ode Al signor di Montgolfier (l’«alipede» foscoliano e «i verdi alipedi» del Monti) e soprattutto Luigi Lamberti[55] con l’ode (essenziale nella vicinanza tematica) I cocchi da cui notoriamente il Foscolo riprese di peso (ma con un tono tanto piú alleggerito e chiaramente non impegnativo, suffragato dall’ironia della impostazione del celebre «Pera colui che l’innocente agnella» del Parini) l’inizio della deprecazione dell’uso di affidare la bellezza femminile al difficile esercizio del cavalcare: «Pera chi osò primiero», e da cui ritornano parole o stimoli intorno all’immagine del cavallo (l’«indocile destriero», l’«infedel quadriga») e, per il tema dell’impennarsi del cavallo (mentre il mito di Ippolito è suggerito dalla strofe precedente), si presenta come suggestione generale (anche se, come poi dirò, mescolata a piú vicini versi alfieriani) la strofe settima:

Allo spettacol diro

rincularo i cornipedi feroci

né piú il flagel sentiro,

o il noto suon delle animose voci

quindi sbattendo i rabbuffati colli,

per la gran tema folli,

si disserrar, forzando e briglia e morso

precipitosi al corso[56].

Ma se il materiale, la zona di cui piú intensamente si serve il Foscolo a incrementare la grazia elegante e sorridente del suo ritmo poetico-vitale è quello della poesia mitologico-galante di tipo classicistico-neoclassico, la sua superiorità a questa sua stessa scelta e la sua spregiudicatezza matura nella ricerca di appoggi funzionali al variare del suo processo di sviluppo dell’Ode lo porta ad utilizzare in qualche caso anche moduli e parole di ascendenza diversa, com’è il caso precipuo della ripresa minzoniana (e certo piú minzoniana che ariostesca[57]) delle forme antiquate e realistico-grandiose e drammatiche (ma cosí adatte a un tono realmente falso drammatico evidenziato da un’intera coscienza della sua condizione forzata e dal suo uso in chiave piú allusivamente ironica) in quegli «arretrosse» e «rizzosse» del cavallo che cosí coerentemente si legano all’imperiosità, corrosa da un interno sorriso e da una misura miniaturistico-ironica, del gesto di Nettuno e si saldano internamente fra loro mediante una esclamazione di cosí evidente falso orrore («orribile»!); aprendo poi la strada alla deprecazione, insostenibile se la sua chiave interpretativa non fosse di voluta e compiaciuta falsa grandiosità: «Pèra chi osò primiero»...

O si pensi alla commistione dei citati versi del Lamberti (nella descrizione dello sfrenarsi del cavallo imbizzarrito e della caduta della Pallavicini) con un passo dell’atto IV, scena II dell’alfieriano Oreste (cosí presente nella composizione del Tieste) ripreso ancor piú direttamente, ma funzionalmente alla rappresentazione mossa, concitata, e priva di vero senso drammatico dell’Ode: «Già sordi al freno, / già sordi al grido, ch’ora invan gli acqueta: / foco spiran le nari: all’aura i crini / svolazzan irti... Io non dirò, com’ei di sangue il piano / rigasse, orribilmente strascinato»[58].

D’altra parte deve esser chiaro che in questa ripresa cosí abbondante di una linea di poesia tardosettecentesca il Foscolo esercitava insieme una ripresa di una delle componenti emerse (fra apprendistato e originalità al livello piú ingenuo) proprio all’inizio della sua attività poetica. E cioè la componente della nitida piacevolezza di forme eleganti e mitiche, la componente dell’«amabile bellezza» cosí dominante (in accordo con i modelli piú adatti e sollecitanti fra Savioli e Bertola) nella sezione prima di Inni ed elegie della Raccolta Naranzi. Era come un riimmergersi – con ben altra consapevolezza, forza, destinazione, gestione delle offerte di un certo gusto neoclassico-rococò – in un mondo di fantasie «amabili» e, a quel livello, intenerite dal sentimentalismo preromantico e da versioni degli stessi miti in chiave dolorosa ed elegiaca (A Saffo).

È cosí sin troppo ovvio come proprio nella breve, interessantissima sezione di Inni ed elegie il lettore può recuperare come lontani preannunci (in chiave piú tenera, gracile, e con chiari tentativi, sin goffi, di accentuazioni piú originali e «nuove») del clima mitico-elegante dell’Ode (con dietro qualche spunto che sale fino all’approccio con la soglia tanto piú alta della seconda Ode). Cosí nel primo componimento Alla bellezza (bellezza incarnata in una «bionda beltà», ma in realtà percepita come motivo di letizia vivificante, anche se poi atteggiata in forme di «tirannia» incolume e invincibile) si rilegga la sequenza delle strofette dalla terza alla sesta:

D’un tuo sorriso roseo

irraggia i canti miei,

che i tuoi sorrisi beano

fin sull’Olimpo i Dei.

Tu di leggiadra vergine

splendi negli occhi vaghi

donde con dardi amabili

soavemente impiaghi.

E tu sul labbro armonico

o Dea, vi stai scolpita

che mentre accenti modula

a sospirare invita.

Ancelle tue ti sieguono

le linde Grazie, e stanno

tutte su un braccio latteo

con cui tu tessi inganno...[59].

O si rileggano nel secondo (A Venere) l’inizio e altre parti in cui spuntano figurine e quadretti mitici (fino a quello di Adone ferito), movenze aggraziate di chiari motivi di culto amoroso e di religiosità erotica:

E te, leggiadra Venere,

te canterem ancora,

o Dea, piú fresca e rosea

della serena Aurora.

Te, cui le Grazie morbide

sieguon coi biondi amori,

te che fra Giuno e Pallade

avesti i primi onori...

Né Adon membrasti e i gemiti,

e il ripercosso petto,

allor che in sé porgeati

de’ mali suoi l’aspetto...

Sacerdotessa, o Venere,

sempre farò che sia

attenta ai tuoi misterii

questa fanciulla mia...[60].

Mentre nel contesto piú nettamente elegiaco di A Saffo emergono invocazioni a Venere e alla stessa Saffo divinizzata («tu pur se’ Dea: memoria / amor de’ fidi serba / e lor fa lieta l’anima / dopo una vita acerba»[61]) e si inseriscono quadretti mitici («... e Ciprio / da te invitato un giorno / con i giojosi passeri / posò sul tuo soggiorno; / e a te tergea benefico / l’occhio dai pianti stanco / e ti porgeva ambrosia / sedendosi al tuo fianco»[62]) che si infittiscono nell’ultimo componimento (il sesto), La coltura: «cosí gioía con Melide / il Pastorello un giorno / che per sentiero incognito / la trasse a rio soggiorno»; «tu incolta sembri Pallade / colta non sembri Dea»; «pari alle Dive Olimpie / Elena ergea le chiome, ma ancor fra gli anni d’Elena / vive esecrato il nome»[63].

E nella direzione di altre sezioni (come quella delle Canzonette e persino delle Odi) il prevalente motivo melodico o ritmico-grave si arricchisce di simili emblemi mitici, soprattutto quello delle Grazie: «Partita è Cloe: ah volino / le Grazie a lei dintorno...»[64], «Le bionde Grazie schiusero / al ghirlandato aprile / le verdi porte...», «Tu sei trofeo di tenere / Grazie, sei giuoco, o rosa, / d’amor nei giorni floridi / a Citerea scherzosa»[65]; «Al suono armonico di nostre cetere / vengon sui Zefiri le Grazie tenere, / che per udir tua voce / abbandonano Venere»[66].

E se un senso piú serio e impegnativo del mito si fa luce in un componimento piú tardo, e cosí interessante anche per motivi di fondo fra paternalistico e democratico (La Giustizia e la Pietà), certo il Foscolo nel concepire l’Ode a Luigia Pallavicini risentí piú direttamente della linea elegante e sorridente di quella prima lontana zona del suo apprendistato e delle direzioni di gusto (pur cosí neoclassicamente rafforzato) che i suoi modelli già allora comportavano.

E del resto anche chi punti l’occhio sull’Ortis 1798 potrà sí trovare elementi confortanti una crescita del senso della bellezza «amabile» in un’accezione piú intensa e impegnativa intorno al motivo alto della bellezza-illusione[67] e dell’«adorazione» della figura «celeste» di Teresa[68] (in una mescolanza di caratteri piú tipici della Teresa 1798 – bontà piccolo-borghese, disponibilità multipla di affetti per la piccola figlia, per il vecchio marito morto, per Odoardo, per Jacopo e minore tensione di passione, di carattere e di infelicità – e degli aspetti piú «celesti», «angelici», «divini» che essa assume agli occhi di Jacopo)[69], ma non potrà dimenticare anche quella lettera XVII in cui la rappresentazione abile, e tutta intessuta di echi e sostegni rococò[70], della donna-dea in senso ironico e dissacrante non può non offrire un qualche precedente alle forme eleganti sorridenti della «deificazione» della Pallavicini.

Sicché tale «deificazione» e l’inno alla bellezza nell’Ode potranno piú facilmente ritenere in sé una intensa sfumatura di fertile ambiguità di cui si fa esponente il sorriso che aleggia sulla pur fervida e mossa rappresentazione della bellezza-vitalità, sganciata da ogni elemento di passione riferito ad una donna amata.

Il fatto è che sulla linea di gusto utilizzata nell’Ode la poetica foscoliana in questo suo particolare momento si stringe e si apre (ma sulla base di questa piú stretta direzione) ad una disponibilità funzionale delle forze crescenti della personalità foscoliana come componenti della spinta centrale di tale poetica.

Al centro – sulla base dell’«occasione» propizia e nella consonanza con il tono socievole-mondano-elegante di tutto l’Omaggio – è la risposta della vitalità e della sua attrazione al clima di tensione drammatica storico-personale, acuita dallo stesso attrito con la condizione dell’azzardo, del rischio, della morte sfidata nella situazione bellica, al centro è la condensazione di questa risposta – nelle forme della poesia e con le forze della poesia – nel ritmo animato e svolto sulla direzione di un gusto di immagini erotico-mitiche[71] ben rispondente – donde l’uso di tanti elementi della poesia tardosettecentesca – alla dimensione in cui la vitalità è colta e intuita attraverso le offerte dell’occasione galante e della esaltazione della femminilità e della bellezza come polo opposto a quello virile della lotta, del rischio del confronto con la morte («i ludi aspri di Marte»). In funzione di questa risposta centrale sono le varie componenti dell’eleganza raffinata, della attenzione alle qualità della bellezza e della delicatezza femminile (donde il rilievo allo spettacolo mosso della bellezza, la stessa relativa trepidazione per il suo pericolo, per la sua fragile caducità, per la sua esposizione ad un rischio incauto, per la sua avida e turbata speranza di guarigione, e lo stesso processo di mitizzazione deificante e l’apertura al suo rinnovato e piú sicuro trionfo). Componenti vive e vivacemente colte dalla capacità foscoliana di maneggiare e far valere questi elementi funzionali con superiore spregiudicatezza e con un’essenziale disinvoltura, superiore alla forza e alla possibile centralità di tali componenti continuamente ridimensionate da un tono di ambiguità sorridente e allusiva, di grazia ironica ben controllata che ne rintuzza la possibile prevalenza di vero impegno e di vera appassionatezza psicologica, come il gusto delle immagini e rappresentazioni mosse e concitate si serve di un apparente realismo, di un’apparente partecipazione intera e commossa alla vicenda che, a mio avviso, non si deve far valere come vero realismo e vera partecipazione sentimentale. E cosí il processo di «deificazione» della donna, impostato come motivo fondamentale sin dal Pecchio, non è da considerare come un approfondimento che conduca già qui a un vero valore salvatore, ma anzitutto come necessario mezzo di una prospettiva qui ancor ben provvisoria e alleggerita dai toni di sorriso aleggiante, di culto sorridente e compiaciuto anche quando raggiunge la sua acme nel finale piú luminoso e trionfale: trionfo e luminosità di una prova poetica che ha scartato ogni elemento di dramma e ha raccolto le sue forze piú intere nell’immagine-mito finale tutto immerso nel suo movimento ascensionale e nell’affermazione intera della vitalità nelle sue forme eleganti e sicure, poetica risposta al dramma della morte, della caducità, dei traumi turbatori e laceranti.

Cosí, a mio avviso, va impostata la lettura di questa prima prova poetica sicura del Foscolo, specie se anzitutto rivista nella forma che assunse nella redazione originaria, ancor piú chiaramente rivelativa per la poetica che la sorregge: redazione che qui perciò riporto, sia per la verifica da parte del lettore di quanto sono venuto dicendo, sia per avere presente la base del successivo lavoro elaborativo che il Foscolo compí sull’Ode per svilupparne piú compiutamente i caratteri fondamentali, per correggerne punti piú incerti e meno ritmicamente e figurativamente validi ed elastici, adoperando la successiva crescita delle sue forze poetiche e i nuovi livelli di sicurezza artistica, e alla fine approfondendone in qualche punto la vibrazione piú interna e superiore, senza con ciò perder di vista l’impostazione centrale da cui era partito.

Ode.

I balsami odorati

per te le grazie apprestino,

per te i lini beati,

che a Citerea porgeano,

quando profano spino

le punse il piè divino,

Quel dí, che i monti empiea

di forsennati gemiti,

e col crine tergea,

e bagnava di lagrime

il sanguinoso petto

del Ciprio giovinetto.

Or te piangon gli amori,

o, fra le dive liguri,

regina e diva; e fiori

su l’ara d’Esculapio

e sacrificio, e voti

offron mesti e devoti.

Il tesor di tue folte

ambrosie treccie agli omeri

molle scendea; disciolte

cosí cascando ondeggiano,

se Palla d’Ascra al fonte,

toglie l’elmo alla fronte.

Armoníosi accenti

dalla bocca volavano,

e dagli occhi ridenti

traluceano di Venere

i disdegni e le paci,

la speme, il pianto, e i baci.

Deh! perch’ài le gentili

forme, e l’ingegno docile

volto ai studi virili?

perché emulasti, incauta,

non dell’Aonie l’arte?

ma i ludi aspri di Marte?

Invan presaghi i venti

il polveroso agghiacciono

petto, e le reni ardenti

dell’inquieto Alipede,

ed irritante il morso

accresce impeto al corso:

Sbruffan le nari, fuma

la bocca, il capo s’agita,

vola a sprazzi la spuma,

e i fren lorda, e i volubili

manti, e l’incerta mano

che mal regge l’insano:

Piove il sudore, i crini

sul collo irti svolazzano,

suonan gli antri marini

all’incalzato scalpito

della zampa, che caccia

polve e sassi in sua traccia.

Già dal lito si slancia

sordo ai clamori e al fremito,

già già sino alla pancia

nuota, e ingorde si gonfiano

non piú memori l’acque

che una dea da lor nacque:

Sennon che il re dell’onde

dolente ancor d’Ippolito,

surse per le profonde

vie dal tirreno talamo,

ed atterrí il furente

col cenno onnipotente.

Quei dal flutto arretrosse

ricalcitrando, e (orribile!)

sopra l’anche rizzosse;

cade l’arcion; tu... misera!

su la petrosa riva

rotolavi mal viva...

Pera chi osò primiero

discortese commettere

a indomito corsiero

l’agil fianco femmineo,

e aprí con rio consiglio

nuovo a beltà periglio.

Ch’or non vedrei le rose

del tuo volto sí languide,

non le luci amorose

spiar ne’ guardi medici

speranza lusinghiera

della beltà primiera.

Di Cintia il cocchio aurato

le cerve un dí traeano,

ma al ferino ululato

per terrore insanirono,

e dalla rupe Etnea

precipitar la Dea.

Gioian d’invido riso

le abitatrici olimpie,

perché l’eterno viso

mesto, oltraggiato, e pallido

cinto apparia di un velo

a’ conviti del Cielo.

Ma ben piansero il giorno

che dalle danze Efesie

lieta facea ritorno

fra le devote vergini,

e in ciel salia piú bella

di Febo la sorella.

La poetica che presiede alla costruzione dell’ode nella sua redazione originaria conferma la sua fondamentale ricerca di un ritmo che traduce l’impeto serio-lieto della scoperta e affermazione della vitalità (entro forme agili, elastiche, che contrassegnano l’emergere e il rapido consolidarsi di figure intonate ad una iconologia mitologica nella sua allusività ambigua, fra eleganza, sorriso, intuizione ed impegno nella rappresentazione vitale della bellezza femminile e della sua vicenda di pericolo, perdita, assicurata riconquista) nella successiva ripresa del testo originario sia nell’edizione pisana del 1802[72] sia, e piú, in quella delle edizioni milanesi del 1803[73] in cui – alla luce della seconda Ode e del nuovo approfondimento che essa importa sia sulla linea dell’inno alla bellezza sia sulla generale linea di sviluppo postortisiano[74] – il perfezionamento dell’Ode alla Pallavicini è portato al suo maggior possibile livello, non senza che almeno una correzione decisiva (il volto «silenzïoso e pallido» di Diana che prima era rappresentato «mesto, oltraggiato e pallido») andasse chiaramente al di là della precisa poetica della redazione originaria dell’Ode portando nel suo finale un approfondimento di pensosa intimità e di nuova luce poetica che è la piú evidente prova della nuova maturità e della nuova direzione poetica raggiunte dalla seconda Ode, in forza delle quali quella correzione era fatta.

Una prima piú limitata necessità di intervento sul testo originario si manifestò nella fase di preparazione alla nuova pubblicazione dell’Ode nella rivista pisana citata. A parte la ovvia necessità di munire l’ode (che nell’Omaggio non aveva altro titolo che l’indicazione di Ode) di un titolo (A Luigia Pallavicini caduta di cavallo sulla riviera di Sestri[75]), il Foscolo ben riprese e reinterpretò la direzione fondamentale dell’Ode lavorando soprattutto sulle prime strofe allo scopo evidente di rafforzare l’apertura ad impeto e slancio (qualcosa di simile all’ex abrupto dei primi sonetti, laddove la seconda Ode si aprirà con un lento moto pensoso, simile, in certo senso, al nuovo procedimento dei grandi sonetti postortisiani: l’emergere dell’evocazione da una zona profonda dell’animo e da una lunga precedente meditazione intima) nella direzione perfezionata di una serie di battute e di immagini che traducono il sentimento di letizia vitale e ambigua (fra tenera e lievemente sorridente) preoccupazione per la donna sfigurata nella sua caduta da cavallo, tutto risolto nell’immagine analogica dell’ufficio pietoso che le Grazie rendono a Venere ferita nel piede da uno spino, immagine espansa in quella piú movimentata e falsamente drammatica della dea in preda al suo dolore per la morte di Adone. Quella direzione si giova ora dello scambio di sede dei due aggettivi «beati»-«odorati», in modo che il primo verso porta in primo piano, nell’accordo «balsami beati», questa dimensione di letizia e di pienezza beata che avvia insieme il processo di sorridente divinizzazione mitologica accentuata, nella seconda strofe, mediante la rappresentazione di un celebre avvenimento mitologico tutto ripresentato in maniera totalmente sgravata del suo piú vero senso tragico e doloroso, ma ora meglio identificato nel suo significato nobilitante-esemplare dalla precisazione degli «Idei monti» (al posto del nudo «i monti»), dal trasferimento della indicazione di smarrimento folle della dea da «gemiti» a Venere e abolendo l’eccessiva (anche se sintomatica nella redazione originaria, proprio per l’eccesso di falsa drammaticità ora tutta piú elegantemente e classicamente rappresa nel tono piú misurato di «insana») qualifica dei gemiti come «forsennati», come accentuazione troppo apertamente melodrammatica di un’indicazione di smarrimento doloroso che trova ora anche la sua collocazione piú propizia al proprio giusto rilievo, nel riferimento alla dea entro il primo verso della strofe, reso cosí piú esplosivo e pieno di parole essenziali e dunque al solito fatto valere come un rinforzo delle giunture-aperture delle strofe specie in questa essenziale parte iniziale. Ed anche il minimo cambiamento, alla fine della strofe, da «bagnava di lagrime / il sanguinoso petto / del ciprio giovinetto» a «bagnava di lagrime / il sanguinoso petto / al ciprio giovinetto» in realtà è coerente ad una costruzione piú attiva e mossa, meglio rilevata con il dativo che evidenzia il rapporto di Venere con l’oggetto essenziale del suo pianto e della sua disperazione. Mentre nel passaggio alla terza strofe che piú direttamente si rivolge alla donna apertamente divinizzata (ma non senza l’ombra di un sorriso elusivo) il Foscolo continua nella sua operazione di rinforzo del ritmo replicando il «te» al secondo verso (in continuazione con i due «per te» della prima strofe) al posto del piú vacuo «o» e accentuando lo spicco della «divinizzazione» con l’esclamativo posto dopo «regina e diva» al verso terzo e tentando anche una migliore resa della seconda parte della strofe (oggetto poi di tanto maggior cambiamento nell’edizione del 1803) seppure con alcuni secondari e minimi interventi di grafia-suono («sull’ara di Esculapio» per «su l’ara d’Esclulapio» e «e sacrifizj, e voti» per «e sacrificio, e voti») intesi ad ottenere comunque un miglior impasto fonico denso ed elastico[76].

Nel resto dell’ode, se si possono notare vari cambiamenti di punteggiatura e di grafia[77], intesi tutti a meglio scandire e rilevare le varie parti dello sviluppo del componimento e del suo ritmo (scandire e legare per un ritmo elastico, non monotonamente fluente e tale da assecondare il rilievo delle strofe e delle immagini senza né cadere nel ritmo ripetitivo-monotono tipico, soprattutto, del Savioli né cercare un tipo di svolgimento piú flessuoso e profondo che sarà parte dell’impegno maturo della seconda Ode e che corrisponderà ad una diversa concezione di poetica), il Foscolo interviene (entro i limiti di una revisione ancorata al livello di maturità della zona dei primi sonetti e non ancora capace di modificazioni piú ardite e decise) con cambiamenti che a volte cadono nella redazione definitiva insieme al testo piú interamente cambiato. Cosí nella quarta strofe il «molle tesor di tue folte trecce» diventa «aureo» (con il tentativo di passare da una forma piú sensoriale ad una forma piú visiva-estatica intonata alla componente classico-sacra della visione della donna-dea), mentre si sostituisce (nella strofe sesta[78]) l’errato e stentato «ai studi» con «a studj»[79]; si cambia nell’ottava «regge» in «placa» piú coerente alla femminile debolezza che invano tenta di spengere e calmare la furia del cavallo imbizzarrito; si rinforza il ritmo di inizio – collegante e separante – della strofe nona con la sostituzione nel primo verso di «E il sudar piove» al posto del piú rigido «Piove il sudar», accentuando l’imperiosità risolutiva del gesto falso-grandioso di Nettuno, nella undicesima, sostituendo «atterri» con «respinse»; si risistema la dodicesima in una piú energica e coerentemente centralizzata organizzazione della scena e del movimento tutti riportati all’azione del cavallo, che cosí meglio campeggia col suo falso realismo inorridito in relazione con la prospettiva delle strofe precedenti, centrate appunto sulla figura e il movimento del cavallo («cade l’arcion» diventa «scosse l’arcion» e «tu misera / su la petrosa riva / ritolavi mal viva», diventa «te misera / su la petrosa riva / strascinava mal viva»); si sostituisce nella tredicesima «infedele» a «indomito» con un’abile estensione della volontà di un tono fra «sacro» e ironico (il cavallo è «infedele» di fronte ai suoi doveri verso il carico prezioso che porta) cosí chiaro nella deprecazione e nell’impiego di «discortese»: si rileva, con le parole intere e la loro pausa interna, l’inizio della quattordicesima («Ché or» invece dell’aggrumato e piú sbiadito «Ch’or»); si accentua, infine, nell’ultima strofe, il senso ascensionale di ritmo, visione, significato «divino» nel cambiamento di «al ciel» al posto di «in ciel».

Ma la revisione piú profonda è certo rappresentata dall’edizione De Stefanis del 1803[80].

Ora il Foscolo – assicurata già nell’edizione pisana la fresca, gentile elastica forza dell’apertura dell’ode nel suo clima di letizia e vitalità alacre entro forme mitologico-eleganti (alla componente di piú «religiosa» allusione contribuisce ora la sostituzione di «il sacro Ida» al posto di «gl’idei monti») – sentí anzitutto il bisogno di dar nuova forma, nuova sistemazione ampliata, nuovo ritmo e slancio evocativo alla zona rappresentata dalla strofe terza e quarta che erano rimaste troppo rigidamente e bruscamente separate, specie con la quarta troppo staticamente fermata e aggrumata nel raccordo fra la presentazione della donna nella sua precedente bellezza e il paragone mitologico di Pallade al fonte.

Il passo venne ampliato in tre strofe che permisero al poeta di svolgere interamente, con chiarezza e con conveniente deduzione di discorso poetico (temi e immagini figurative, percorso ritmico-musicale), la trasfigurazione mitologica della presentazione del pianto e dei voti augurali degli amori, l’invito alla donna a ritornare alla danza, che vien rievocata nel suo incantevole movimento, il paragone fra la donna con le sue chiome sciolte nella danza e Pallade immersa nell’acqua e incapace di contenere fuori di questa i suoi capelli disciolti.

È chiaro che il motivo della danza, estraneo alla concezione iniziale, è suggerito dalla seconda ode, in questa ben altrimenti sviluppato, ma tale da costituire un elemento essenziale di integrazione nella reinterpretazione e sviluppo della visione mobile che costituiva un essenziale modulo di novità inventiva nella stessa concezione originaria della prima ode, ma allora contratto e immobilizzato in questa zona cosí impegnativa e risolto solo nel relativo movimento delle trecce che si sciolgono, su cui il Foscolo aveva allora solo puntato. Ora esso diviene elemento essenziale ed esplicito e motiva e comanda il movimento stesso delle trecce, piú prezioso e gustato e cosí prolungato e arricchito nell’immagine della donna e in quella di Pallade con una maggiore consistenza e suggestione poetica. Mentre le nuove strofe tanto meglio preparano la strofe seguente e il movimento in essa già cosí perfettamente realizzato, che cosí piú agevolmente associa al movimento della danza quello piú sottile degli «armoniosi accenti» della donna e tutto l’incanto delle grazie e lusinghe femminili che emana dai suoi «occhi ridenti».

La direzione della reinterpretazione del 1803 è, come si vede, volta ad un’accentuazione – entro i termini di una impostazione, che sempre predomina, di inno di letizia vitale di cui la tendenza «deificante» della bellezza femminile è componente (e ancora ambigua) e non elemento assoluto e persuaso – appunto di tale componente come del fondamentale ritmo, commutatore di vitalità, in forme di eleganza e di colore mitologico. Sicché, ancora ritornando alle strofe qui considerate, la rappresentazione, nella strofe terza, degli amori, appare chiaro come il Foscolo tendesse a diminuire il troppo esplicito raccordo con una troppo precisa realtà mondana e galante, abolendo le piú dirette connotazioni in tal senso degli amori «mesti e devoti» (con la loro falsa compunzione di figurine troppo facilmente allusive a personaggi della corte galante della Pallavicini troppo facilmente travestiti mitologicamente) e accentuando il tono piú mitologico-ieratico (a costo della possibilità di «una zeppa», se considerata fuori del suo contesto figurativo-ritmico) con l’immagine dilatata e la inerente risonanza piú «grave» (ma in realtà sempre in una dimensione di relativo impegno in tale componente) degli ultimi versi: «d’onde il grand’arco suona / del figlio di Latona».

Ugualmente (pur non trascurando una correzione meno vistosa: l’inversione e modifica – nel 4°-5° verso della strofe settima[81] – che vale comunque a meglio movimentare la replicata domanda alla Pallavicini[82]), è sempre sulla linea direttrice della reinterpretazione del 1803 il lavoro che il Foscolo adibí ad una migliore sistemazione del passo centrale del cavallo imbizzarrito e della caduta della Pallavicini.

Qui si trattava di mantenere e accrescere il movimento della figura del cavallo e del ritmo da cui essa è investita e in cui s’incarna e prende valore di figuratività mobile, e insieme di mantenere, ma di smussare, nei suoi elementi piú pesanti e lessicalmente goffi, l’ambiguo realismo e il falso orrore della rappresentazione riportandoli il piú possibile ad un livello piú elegante – seppur sempre insaporito da una voluta e compiaciuta mescolanza di forme lessicali fra auliche e prosastiche – e ad una sorta di alto manierismo con il suo pimento di solennità da «alto soggetto»[83]. Cosí nella strofe nona cade il goffo «sbruffan le nari» sostituito dal tanto piú intenso e penetrante «ardon gli sguardi» (movimento piú interno ed espressione della eccitazione estrema del cavallo). Cosí «il capo agita» cede a «agita / l’ardua testa» (in cui l’enjambement accentua il piglio della strofe mentre «ardua» e «testa» accrescono, con la preminenza del latineggiante «ardua», la voluta, ma piú misurata Mischung di forme auliche e normali). Cosí è tolto «a sprazzi», a scapito di una perdita di suono piú irto, ma a vantaggio di un particolare piú sintetico. Cosí è risistemato il finale che culmina (dopo aver fatto valere lo sdrucciolo «volubili» alla fine del quarto verso come rinforzo dell’enjambement e aver cambiato «l’incerta mano» nell’«incerto freno», con un piú coerente riferimento ai particolari della rappresentazione del cavallo e con l’abolizione della sua continuazione diluente su cui il Foscolo aveva esitato fra redazione originaria e correzione del 1802: «mal regge», «mal placa») nel particolare del «candido seno» che con la sua sicura estrazione petrarchesca («seno» dunque come «lembo») rafforza la solita, voluta, ma piú elegante mescolanza di linguaggio e la sigla con una forma singolarmente eletta e preziosa. Nella decima strofe la sostituzione di «allo incalzato scalpito» al posto di «all’incalzato scalpito» non è pura correzione grafica, ma indicazione per una resa di suono e ritmo piú scandito e rilevato.

Ripristinato nella dodicesima il plurale piú suggestivo delle «profonde vie» rispetto al tentato cambiamento in singolare dell’edizione pisana, nella tredicesima viene rettificato il finale – sull’avvio delle correzioni pisane – centrando ulteriormente il soggetto sempre nel cavallo e impiegando (rispetto a quelle) il gerundio («strascinando» per «strascinavi») piú adatto all’azione finale ora piú efficacemente presentizzata, come già avviene nel cambiamento di «scuote» rispetto a «scosse».

Ma certo la modifica piú vistosamente poetica e innovatrice-reinterpretativa (sino al limite di una certa alterazione della poetica della redazione originaria alla luce della prospettiva maturata e realizzata nella seconda Ode) è quella del quarto verso della penultima strofe. Mentre nelle precedenti redazioni l’«eterno viso» di Diana ferita veniva qualificato come «mesto, oltraggiato e pallido», nella redazione milanese esso viene rappresentato come «silenzïoso e pallido». Qui si ha un vero salto qualitativo, si ha la piú chiara presenza di una reinterpretazione che mentre asseconda l’ascesa delle ultime strofe – già avviata ad una risoluzione mitico-poetica in cui prevale il senso piú aperto della bellezza momentaneamente appannata e ambrata di un lieve velo di malinconia e poi splendente e accresciuta per contrasto (anche se insieme percorsa da un fremito di letizia vitale essenziale all’Ode) – risolve in una suggestione tanto piú intima e intensa, entro un respiro poetico tanto piú vasto e profondo, l’espressione-rappresentazione del volto di Diana attraverso due sole note essenziali in cui anche l’allungamento della dieresi («silenzïoso») collabora ad un allentamento pensoso del ritmo e ad una superiore intimità espressa nel nuovo accordo di silenzio e pallore. Certo il verso della redazione originaria (geniale ripresa di un ritmo melodrammatico colto all’altezza piú brillante di un Savioli) era, a suo modo, ben pertinente alla ricerca originaria di una rappresentazione e ritmo piú movimentati, piú brillanti, piú, ripeto, volutamente melodrammatici, e proprio questa revisione può portarci meglio a misurare il diverso livello, la diversa prospettiva della fase 1800 e della fase 1803. Non con ciò l’ode veniva alterata come per un tocco superiore, ma stonante. Ché l’accordo piú numeroso e melodrammatico pur conteneva stimoli per un simile nuovo superiore svolgimento (la nota della mestizia e dell’oltraggio riassorbita nel silenzio della dea, la nota piú visiva del pallore ripresa tale e quale nel nuovo accordo) e le due strofe finali pur nel loro impianto di ascendenza savioliana («Gioian d’invido riso»... «Ma ben piansero il giorno») contenevano energici stimoli a un finale piú luminoso e, pur nella sua allusione di vitalità lieta, non privo di aperture verso una piú matura ideazione del valore della bellezza e di una mitizzazione neoclassica superiore alla fruizione, funzionale, ma piú ravvicinata, del neoclassicismo di tipo piú edonistico-erotico settecentesco. E tuttavia certamente in quella correzione soprattutto era il varco verso la nuova maggiore poesia foscoliana e mercé quella correzione (e in parte mercé quella del brano della danza) meglio si può capire certa persistente confusione fra i livelli e le prospettive delle due Odi.

Se la reinterpretazione e la revisione del 1802 e del 1803 modificano notevolmente l’ode com’essa era nella redazione originaria del 1800, non si può dire che esse alterino sostanzialmente – anzi esse lo migliorano e perfezionano – l’essenziale elemento portante dell’ode (il ritmo poetico-vitale alimentato di immagini figurative mitiche) in cui si erano già commutati fin dall’inizio gli elementi complessi dell’esperienza e dell’immaginazione foscoliana entro il concreto momento di quella composizione. E la distanza e l’originale condizione di diversità (e di apertura) rispetto alla seconda Ode rimangono ben percepibili.

L’ode rimane contrassegnata dalla sua qualità di fervida, mossa e complessa risposta personale-storica all’insecuritas della condizione bellica, della presenza del rischio e della morte, ai traumi e alle delusioni personali, storiche, politiche, mentre essa pur nasce dall’attrito con tutto ciò sfociando in un sí alla vitalità, fra elusione della pressione drammatica e impegno nella letizia libera (l’aria di libertà di chi è passato attraverso il rinnovamento di valori della rivoluzione), gioiosa, e insieme come ironica e gustosa, compiaciuta della propria dimensione di eleganza, di fruizione del pimento di una civiltà figurativa mitologica passata, e fatta rivivere senza grave serietà, ma con la convinzione che la bellezza femminile è pure elemento vitale di una nuova civiltà in via di costruzione e che la sua sorridente, brillante «deificazione» ne evidenzia i caratteri di serietà e di elusione, in una dimensione intermedia, che non ha ancora superato il trauma drammatico e pur ne fuoriesce nei suoi toni di sorriso, di letizia, e di fiducia non da assumersi però nella loro accezione piú persuasa e come fondatori di una poetica e di una problematica postortisiane.

Intesa nella sua genesi, nella sua direzione di poetica, l’ode acquista il suo significato e il suo valore non gravabile di alte responsabilità psicologiche e realistiche o problematiche piú profonde. Né perciò l’ode decade a una semplice continuazione della poesia edonistico-galante del Settecento, a una raffinata «collana di cammei», né a un «madrigale» sganciato da ogni raccordo con la problematica dinamica della poesia foscoliana.

L’ode vive, funziona e vale nella sua retta direzione e in questa ha la sua forza, il suo fascino, la sua consistenza, come il suo posto nell’economia dello sviluppo foscoliano. Non per nulla piú tardi nasceranno i toni elusivi-ironici-allusivi del Sesto tomo dell’io[84], non per nulla elementi dell’ode serviranno, tanto diversamente orientati e approfonditi, alla formazione della seconda Ode fornendo comunque un tramite fra il senso della bellezza-vitalità piú lieta e disacerbante e l’alta visione poetica dell’illusione-valore dell’«aurea beltade».

Certo ben altro ci voleva perché il Foscolo (pur riprendendo le offerte dell’Ode nella componente della bellezza, prima in pericolo e poi salvata e assicurata) giungesse alla poetica dell’Amica risanata.

Non solo la nuova e grande ode nasceva da un nuovo e superiore circolo di esperienze concluse nella preminenza del dramma consumato nella sua dimensione piú appassionata ed intera (il che permetteva, specie nei sonetti maggiori, di rivedere lo stesso dramma vissuto in una prospettiva rasserenata e inserita in una storia piú intera di se stesso, delle proprie esperienze, del tempo cambiato), ma il motivo della bellezza (alimentato dalla condensazione di una profonda passione e dalla sua consumazione in un mito salvatore e quindi con una diversa e superiore dialettica di vitalità e di dramma) veniva ora sottratto alla dimensione prevalentemente elegante, ironico-allusiva, di esponente della vitalità bisognosa di trovare espressione entro un percorso drammatico ancora fortemente in atto, veniva ora portato ad un sicuro significato di illusione-valore (base parziale delle illusioni-valori che il Foscolo svolgerà nella zona dei Sepolcri), mediato e preparato com’era da punti intermedi di esperienza e valorizzazione che è dato cogliere entro le linee le cui punte e direzioni sopravanzano la zona della prima Ode pur impostandosi in quella zona fervida e complicata fra Ortis e Ortis cui appunto la prima Ode appartiene.

Cosí dal Sesto tomo dell’io e da una delle sue parti piú alte e moderne (il brano a Psiche) emergerà quella preghiera alla natura che, pur inserita in un contesto di suprema e stimolante ambiguità, pronuncia decisamente una sintomatica direzione di uscita dal dramma ortisiano: «O Natura! accogli quest’inno de’ tuoi figli. I mortali dovrebbero maledirti e renderti questa vita. Pianto, speranza, terrore e morte ecco i nostri elementi. Ma tu hai creato la Bellezza! e noi adorandola ti rendiamo grazie anche per i nostri mali»[85].

Cosí dal carteggio Arese, preso fra toni ortisiani e nuove direzioni che già avviano al di là del denso e tormentato iter catastrofico dell’Ortis (avvicinandosi ad aperture luminose negli stessi sonetti minori: si pensi al finale del IV e dell’VIII), emergono richiami e segni di una bellezza consolatrice e di una divinizzazione, ben diversamente valida, della donna amata, chiamata con parola sintomatica «mia consolatrice», di cui il poeta si augura di poter eternare bellezza e gioventú («Oh potessi io rendere eterna la tua bellezza e la tua gioventú»), già rievocata nel suo fascino profondo e nella sua funzione di «conforto» («Oh se tu leggessi nel mio cuore quando que’ tuoi grandi occhi divini s’incontrano ne’ miei, tu ti compiaceresti del conforto che procuri a questo povero sventurato»[86]).

Cosí nello stesso Ortis 1802 si profila una visione, seppure parziale, di Teresa «consolatrice» e «divina» (e già nel romanzo, a lungo, freno vitale all’ansia suicida di Jacopo) e, nel contesto drammatico di quel grande e decisivo libro foscoliano si fa ben luce quell’elemento di bellezza come «ristoro» (la parola decisiva del Leitmotiv dell’Amica risanata) già in svolgimento, come abbiamo visto, nella stessa preghiera della natura del Sesto tomo dell’io, nel carteggio Arese, e tanto rafforzato e reso pregnante dall’intero sviluppo del dramma cui esso fa sempre piú da contrappeso seppur ancora provvisorio e insufficiente[87].

Mentre lo stesso uso del mito, che nell’Ode alla Pallavicini valeva in una precisa funzione di vitalità lieta, in dimensioni eleganti-galanti, nella nuova grande Ode si apriva – pur nella sua unilateralità e nel suo margine di rischio estetistico – a un ben diversamente maturo e complesso senso di mito poetico creativo e fondatore di vita e di civiltà (unione di «mirabile e passionato») verso la giustificazione della poetica della Chioma di Berenice e dunque verso il centro propulsore della maggiore poesia foscoliana.


1 Milano 1967. Mi pare che – a parte tante ragioni variamente importanti dell’umore gaddiano: odio per la retorica, misoginismo, milanesismo ecc. – l’acre, ma nell’insieme modesto attacco antifoscoliano di Gadda sia stato sollecitato proprio dalla piuttosto scolastica e antiquata immagine (parzialissima poi: dov’è calcolata la prosa didimea?) che egli ha recepito del Foscolo e in particolare di questa ode interpretata sulla linea della infatuazione piú retorica per l’assoluta «deificazione» di Luigia Pallavicini.

2 Per la forte prevalenza del Bertola si ricordi almeno (al limite fra assimilazioni di posizioni del Settecento piú avanzato e prime incisioni di motivi autobiografici foscoliani a lungo persistenti) come nella stessa prosa della dedica a Costantino Naranzi il motivo ben foscoliano degli «anni perseguitati ed afflitti», consolati da amicizia e amore, risenta della dedica bertoliana al duca di Belforte del componimento La state, là dove il Bertola parlando della propria morte vicina immagina che l’amico lo rimpiangerà morto «non senza spargere una lagrima pietosa» e «si diletterà di quel patetico sentimento, che risveglieranno nella sua bell’anima le memorie di un solitario infelice» (Operette in verso e in prora dell’abate De’ Giorgi-Bertola, Bassano 1785, I, p. 67).

3 Già nella raccolta Naranzi si faceva luce l’immagine della madre infelice e prefigurata nel culto amoroso della precoce tomba del figlio: «Funerei fiori e nenie / dell’infelice madre / me seguiran già cenere / fra sorde pietre ed adre» (A Saffo, in Tragedie e poesie minori, a cura di G. Bezzola, Ed. Naz., vol. II, Firenze 1961, p. 245).

4 Rinvio per il caso Wieland, ma un po’ per tutte le note qui accennate della poetica dell’Ortis bolognese al mio saggio sul «Socrate delirante» del Wieland e l’«Ortis», in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze 1963, 19763.

5 Purtroppo specialmente questa zona è irta di problemi di datazione di opere e di gravi incertezze sul piano stesso della cronologia biografica. E da tempo si sente il bisogno di una nuova e piú attendibile biografia foscoliana che costituirebbe un contributo essenziale agli studi foscoliani e alle vere possibilità di una ricostruzione dinamica del processo di poetica e di poesia del Foscolo.

6 Si ricordi come l’Ortis non è solo momento essenziale per il futuro svolgimento foscoliano (e intanto in se stesso il libro foscoliano piú esplosivo e ribollente di motivi in potenza, e perciò tanto piú densi di forze colte nella loro iniziale liberazione); il che non vuol dire affatto negar cosí la grandezza dei sonetti maggiori, della seconda Ode, dei Sepolcri, della prosa didimea, delle Grazie, ma costituisce anche un momento essenziale (il piú usufruito non a caso) nella formazione del grandissimo Leopardi, che meno sentí (nella sua diversa via di sviluppo) la poesia della maturità foscoliana, per lui meno sollecitante, malgrado echi e riprese dai sonetti e dai Sepolcri nei Canti, ma sempre fortemente spostati rispetto alla direzione dei testi foscoliani.

7 La revisione consiste per lo piú in correzioni di errori ortografici o di forme piú dispersive e piú fiacche rafforzate da una retorica e piú logicamente coerente ripetizione (ai vv. 51-52: «Italia, ahi! solo al vituperio viva, / al vituperio che piangendo lava», invece di «Italia, ahi! solo all’abbominio viva, / viva all’infamia che piangendo lava»). Solo ai vv. 193-198 la revisione implica non solo un miglioramento retorico-sintattico, ma un cambiamento ideativo, relativo al piú chiaro tema unitario nazionale e al suo appoggio romano repubblicano che è andato facendosi dominante nella prospettiva foscoliana a scapito del richiamo alle «sante» «leggi della natura»: «Ve’ ricomporsi i tuoi vulghi divisi / nel gran Popol che fea / prostrare i re col senno e col valore, / poi l’universo col suo fren reggea: / vedi la consolar guerriera pompa / e gli annali e le leggi e i rostri e il nome!» al posto di «Ma col dito di Dio ne’ cori incise / di natura le sante / inviolate leggi e dal terrore / del dispotismo sino ad oggi infrante. / Le sante leggi spazïar con pompa / liberamente ti vedrai nel seno» (cfr. testo critico in Tragedie e poesie minori cit., p. 340). Circa la nozione e pratica foscoliana dell’intellettuale e del suo ruolo rispetto al potere nella società nel periodo giacobino si rimanda al saggio di A. Lepre, Per una storia degli intellettuali italiani: i giacobini e il Foscolo, in «Movimento Operaio e Socialista», 1968.

8 Lo Championnet è considerato nella dedica del Discorso sia come «gran Capitano» sia come «ottimo cittadino» (e certo non si tratta solo di captatio benevolentiae, ma del fatto che egli era uno di quei generali «democratici» e di estrazione popolare piú sinceramente legati alla causa della rivoluzione e inoltre era stato fondatore della repubblica partenopea contro le direttive del Direttorio).

9 Anche per questo aspetto il Discorso foscoliano si distingue dai numerosi appelli consimili di altri italiani rivolti al Direttorio o al Consiglio dei Cinquecento.

10 Cfr. Discorso, in Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, a cura di G. Gambarin, Ed. Naz., vol. VI, Firenze 1972, pp. 158-162

11 Cfr. Dedica, Ed. Naz., vol. VI cit., pp. 163-164. Tale dedica come poi l’Ortis e la stessa pur piú compromessa Orazione a Bonaparte per i comizi di Lione confermarono in Napoleone e nelle autorità francesi quell’indelebile taccia di «testa calda» che il Foscolo si era già meritata per i suoi atteggiamenti al momento di Campoformio, quando, secondo la testimonianza dell’incaricato di affari austriaco a Venezia – riportata meritoriamente dal Gambarin nella sua introduzione (p. XXV) al vol. cit. dell’Ed. Naz. –, il Foscolo avrebbe dalla tribuna della Società di pubblica istruzione di Venezia vomitato «toutes les imprécations possibles contre le Général en chef Bonaparte» e «armé d’un poignard et faisant des esclamations et des contorsions horribles, il l’a enfoncé avec fureur dans le parapet de la tribune, en jurant de frapper du même le cœur du perfide Bonaparte».

12 Epistolario, Ed. Naz., a cura di P. Carli, vol. I, Firenze 1949, p. 75. Evidentemente il Foscolo deluso dallo Championnet pensava, ingenuamente, che un diverso generale avrebbe potuto accogliere la sua ardita proposta. Ma ormai riteneva inutile replicare il suo tentativo.

13 Forti spinte democratiche e sociali sono nell’attività giornalistica del ’98 ben evidenti solo che si considerino almeno (nel contesto dell’epoca direttoriale) l’istanza assoluta della sovranità popolare, la proposta della legge agraria e la dimostrazione del carattere non «naturale» e non «primitivo» della «proprietà», pur entro la tendenza a cercare soprattutto una minore sperequazione fra eccessive ricchezze e miseria eccessiva (cfr. nel «Genio Democratico» del 9 ottobre e 11 ottobre: in Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808 cit., pp. 145-148).

14 Si vedano in proposito le poche, ma significative lettere foscoliane di questo periodo, che tanto insistono sulle proprie sventure, malattie, miseria, sulla sua decisione di andare a Parigi, ma anche sulla sorte infelice degli italiani esuli in territorio francese (specie nella lettera al Bossi, da Nizza, del 26 gennaio 1800, Ep., I, pp. 76-77, dove si parla, con toni ortisiani, di due italiani «vittime della rivoluzione» e colpiti, oltre che dalla fame, dalla «inospitalità e dal disprezzo, unica ricompensa che gl’Italiani ricevono sul territorio francese»).

15 Cfr. la «Gazzetta Nazionale della Liguria», 12 ottobre 1799, e il «Monitore Ligure» dello stesso giorno circa l’annuncio del Discorso, e gli stessi giornali del 30 novembre circa la Dedica e l’ode ripubblicata. Del resto echi di questi scritti appaiono in vari articoli della «Gazzetta Nazionale della Liguria» (specie nell’articolo del 21 dicembre, Convenienze della Francia per repubblicanizzare l’Italia). La lettura poi di tali giornali da parte del Foscolo par provata anche da qualche possibile suggerimento all’autore dei Sepolcri contenuto ad esempio nella notizia-articolo circa «l’abuso di seppellire i morti in chiesa» («Gazzetta Nazionale della Liguria», 22 marzo 1800) e la morte di due facchini discesi in un sepolcro e uccisi dal gas mefitico. Per l’idea di Santa Croce il Goffis nella sua Antologia foscoliana (Torino 1942, p. 25) ipotizza la lettura foscoliana di un articolo uscito sul «Redattore Italiano» il 18 maggio ’99, poco prima dell’arrivo del Foscolo a Genova.

16 Appare ben poco accettabile l’attribuzione al Foscolo di un articolo politico su di un giornale genovese, il «Redattore Italiano», affacciata da V. Vitale (Un giornale unitario del ’99 e un probabile articolo del Foscolo, in «Annuario del R. Liceo C. Colombo», 1931), rifiutata dal Gambarin nella sua introduzione al cit. vol. VI delle Opere, Ed. Naz., p. LVIII.

17 In seguito al colpo di stato del 18 brumaio anche la repubblica ligure subí un cambiamento di governo, fu abolito il Direttorio, i consigli furono «aggiornati» e fu creata una commissione «interina» di governo. Cosí vennero chiuse le discussioni pubbliche politiche e amministrative che avevano animato fino allora la vita pubblica genovese (cfr. il numero della «Gazzetta Nazionale della Liguria», 30 novembre ’99), cosí come fu rafforzata la censura su ogni scritto di carattere e argomento politico (si giunse perfino a riprovare e censurare un componimento in versi di G. Rossi, I soldati di Francia, specie per l’ultima strofe che suonava cosí: «Viva il Popolo Sovrano, / e di lui chi è fido amico! / Morte ai regi ed all’intrico, / e a chi morte a lor non dà»).

18 Per la condizione di miseria, fame e malattie (e sullo stato di mendicità del popolo minuto) si vedano i giornali degli ultimi mesi dell’assedio (ad esempio l’articolo sulla mendicità nel numero del 18 marzo 1800 della «Gazzetta Nazionale della Liguria»), magari rilevate insieme a mode frivole nate in quella situazione (le dame con il loro «molinetto» in argento e il pacchetto di grano da macinare «o che portano in mano» «quasi per vezzo un mazzo di aglio o cipolle», come portavano «altra volta un mazzo di vainiglia o di rose») legate e contrastanti insieme con la costatazione della generale «mancanza del pane» e con l’esclamazione del giornalista: «l’anima nostra e la nostra penna rifugge dalla descrizione lagrimevole di quell’orribile variazione...» (cfr. l’articolo Varietà in una città assediata in due puntate sui numeri del 24 maggio e del 31 maggio 1800).

19 Per le feste date dalle famiglie aristocratiche genovesi si veda il paragrafo La fame si diverte, nel capitolo Assedio e blocco di Genova nel vecchio volume di L.T. Belgrano, Imbreviature di Giovanni Scriba, Genova 1882 (pp. 231-238). I giornali del tempo sono poi pieni di articoletti e dialoghetti fra seri e scherzosi, fra indignati e compiaciuti, sulla vanità delle donne anche nel periodo dell’assedio, sulle nuove mode femminili, venute di Francia, di vestiti molto scollati e succinti, nocivi alla salute (e alla moralità), ma adatti a mettere in rilievo le «grazie» naturali delle «belle».

20 Per il Foscolo, tanto superiore alle piú facili forme di moda dei suoi amici nell’impresa dell’Omaggio, si pensi, in un periodo di poco precedente, alla difesa della lingua latina nel sonetto del ’98 o all’ultima parte della Difesa contro le accuse a Vincenzo Monti.

21 Per l’Omaggio mi servo di una fotocopia del rarissimo esemplare posseduto dal professor Gianfranco Acchiappati: fotocopia che per questo studio gentilmente il carissimo, compianto amico Pagliai mi dette, ben sapendo, come egli mi scrisse, quanto il possessore di questo e altri importanti documenti foscoliani sia generosamente lieto che essi servano agli studi del Foscolo. Il primo componimento dell’Omaggio porta la sigla F. G. Si pensò a Giovanni Fantoni o a Francesco Gianni, ma è impossibile che quel componimento modestissimo, e tutto impostato sulla autoindicazione dell’autore come «non poeta» che presenta versi di «poeti» capaci di dire ciò che lui sente, ma non sa esprimere, sia dell’«ispiratissimo» Labindo, sempre ultraconsapevole della sua qualità di «cigno poetico», o dell’orgogliosissimo «poeta» Gianni. La copia da me vista dell’Omaggio ha una chiave manoscritta dei nomi degli autori sotto ogni sigla e nell’ultima pagina bianca dell’opuscolo che si conclude con la dicitura: «Ex dono Aloysiae Pallavicini» e che ripete e specifica le attribuzioni affermando che la prima canzone è di Fantuzzi Generale nel Regno Italico. Sicché la stessa chiave può pensarsi suggerita, a distanza di tempo, dalla stessa Pallavicini. Cosí la spiegazione della prima sigla F. G., come «Fantuzzi Generale nel Regno Italico» può ben indicare Giuseppe Fantuzzi con l’iniziale del cognome e la qualifica di Generale (in questo caso la qualifica del grado era un’eccezione ben comprensibile per l’autorevolezza dell’autore appunto in quanto generale) e piccolo ostacolo a questa attribuzione è costituito dall’errata qualifica del generale «nel Regno Italico» che può essere una facile svista ed errore mnemonico fra Repubblica Cisalpina e Regno Italico (il Fantuzzi morí il 2 maggio 1800 alla battaglia del Colle della Coronata, cui parteciparono gli altri autori dell’Omaggio, come generale delle truppe della Repubblica Cisalpina), o della stessa Pallavicini o dell’ignoto estensore della spiegazione dell’identità degli autori dell’Omaggio, che compie un’altra iniziale svista a proposito della sigla T. C. spiegando T. Ceroni (laddove deve intendersi il suo pseudonimo Timone Cimbro). Né sembra poter trattarsi del fratello del Fantuzzi (l’altro amico del Foscolo e partecipe alla battaglia del Colle della Coronata come caposquadrone), il cui nome era Luigi e che nel Regno Italico raggiunse il grado di colonnello e morí nella campagna di Russia. Del resto l’ordine e il numero delle iniziali nell’Omaggio è vario: ora è intero e corrisponde all’ordine di nome e cognome: il caso di U. F. (Ugo Foscolo), di T. C. (Timone Cimbro, il Ceroni), di A. G. (Antonio Gasparinetti), ora invece è capovolto (G. A.: Gasparinetti Antonio), ora è di una sola iniziale (C., Cimbro T. o Ceroni). Alla fine F. G. potrebbe anche dire Fantuzzi Giuseppe. Forse tale varietà di disposizione delle iniziali volle far pensare ai lettori che il numero dei collaboratori all’Omaggio fosse superiore a quello reale. Giuseppe Fantuzzi bellunese (1762-1800) fu certo fra le amicizie giacobine del giovane Foscolo, che poi a Genova fu suo ufficiale di corrispondenza. Il Foscolo fece alto elogio del suo valor militare e il suo amore per la libertà nell’Orazione a Bonaparte pel congresso di Lione e intendeva scriverne la vita: ne restano brani nei mss foscoliani della Nazionale di Firenze di cui si servirono gli editori ottocenteschi delle Opere edite e postume di U. Foscolo (vol. V, pp. 67-71) per stenderne i Cenni biografici messi a seguito dell’Orazione citata. Sul Fantuzzi giacobino si veda ora M. Berengo, La società veneta alla fine del ’700, Firenze 1956, pp. 217-224. Il veronese Giuseppe Giulio Ceroni (1774-1813), collega d’armi e di idee politiche del Foscolo, ebbe una notevole attività poetica intonata a influenze ossianesche e fantoniane (e piú tardi foscoliane). Ma i suoi componimenti piú noti appartengono ad una fase successiva al periodo in cui collaborò all’Omaggio. Su di lui cfr. G. Mazzoni, Abati, soldati, autori, attori del Settecento, Bologna 1924, pp. 325 e ss. Antonio Gasparinetti, di Ponte di Piave (1777-1824), giacobino, combattente e scrittore, si dedicò poi all’attività tragica e a liriche e componimenti encomiastici su Napoleone. Cfr. F. Mazzoni, Un altro commilitone di U. Foscolo, in «Atti dell’Istituto Veneto», serie VIII, V (1893-1894). Solo dopo la pubblicazione del presente saggio sono venuto a conoscenza – attraverso una citazione bibliografica nel primo volume dell’edizione delle Opere del Foscolo, a cura di G. Gavazzeni, Ricciardi, Milano-Napoli 1974 – della scheda dello stesso Gavazzeni (I balsami odorati: Scheda per la prima stampa dell’Ode «A Luigia Pallavicini caduta da cavallo», nella miscellanea Un augurio a Raffaele Mattioli, Sansoni, Firenze 1970) sfuggita sia a me che a Pagliai (nonché a recenti commentatori dell’Ode). In quella «scheda» il Gavazzeni dava il testo dell’edizione genovese dell’Ode e di tutto l’Omaggio a Luigia Pallavicini, riproducendo la copia di questo posseduta dal signor Emilio Brusa (e poi – in una nota aggiunta sulle bozze – usufruendo anche della copia posseduta dall’Acchiappati, che gli permetteva di attribuire i versi di apertura dell’Omaggio al Fantuzzi invece che al Gianni, come aveva prima ipotizzato) e vi aggiungeva sia il testo critico definitivo dell’Ode, sia un rapido esame della presenza dell’edizione genovese entro la successiva elaborazione dell’Ode. Data la scarsa diffusione della «scheda» del Gavazzeni ritengo utile, piú avanti, di offrire ugualmente il testo originario dell’Ode, del resto indispensabile al discorso critico che se ne ricava. Quanto alla premessa all’Ode e alle ricchissime annotazioni contenute nel citato primo volume delle Opere del Foscolo curato dal Gavazzeni (il quale a sua volta non poteva tener conto, anche volendolo, di questo saggio pubblicato poco prima dell’uscita del volume stesso) è impossibile qui utilizzare i richiami di altri passi citati sia da opere precedenti e successive del Foscolo sia da opere classiche e italiane, che del resto non altererebbero il senso fondamentale della mia interpretazione se non nel senso di una maggiore utilizzazione diretta, da parte del Foscolo, di testi greco-latini risentiti comunque, a mio avviso, pur sempre attraverso un essenziale filtro di originalissimo «tardo settecentismo» in funzione del tono e delle ragioni di poetica dell’Ode.

22 Sul celebre avvenimento della caduta della Pallavicini si veda l’articolo di A. Neri, La caduta di Luigia Pallavicini, in «Giornale Storico e Letterario della Liguria», V (1904), pp. 120 e ss. e, le pagine a volte azzardate, quanto a ipotesi di precise e perentorie datazioni, del vol. di A. Bassi, Armi ed amori nella giovinezza di U. Foscolo, Genova 1927. Circa la datazione dell’Omaggio (che porta la data anno 8° e dunque fra 23 settembre ’99 e 22 settembre 1800) e quella dell’Ode foscoliana essa non si può assicurare con certezza. Tradizionalmente la datazione dell’Ode era fissata nel marzo 1800; poi A. Neri (La caduta di Luigia Pallavicini cit., pp. 120-133, e La stampa originale dell’Ode a Luigia Pallavicini, in «Giornale Storico e Letterario della Liguria», VII [1906], pp. 335-342) pensò di poterla avvicinare all’occasione, a sua volta fissata da lui al luglio 1799, mentre piú recentemente il Bassi (giustamente lasciando l’ipotesi di una composizione immediatamente vicina all’occasione) ritenne di poter fissare l’ideazione dell’Ode foscoliana fra il 12-18 aprile – periodo di consegna del Foscolo per punizione – e la stesura dopo la ferita del 2 maggio durante i venti giorni della sua convalescenza, mentre l’Omaggio sarebbe stato pubblicato solo nel luglio. A mio avviso, una volta fissato il terminus a quo (l’occasione) al luglio 1799 si può almeno fissare il terminus ante quem (già per quanto riguarda la pubblicazione dell’Omaggio) e cioè la morte del Fantuzzi (2 maggio 1800) se, come è molto verosimile, il Fantuzzi è l’autore del breve componimento di apertura e di presentazione della raccolta. Propenderei poi per una datazione abbastanza vicina a quest’ultima data, e cioè in un periodo di avanzato stato delle sempre piú incalzanti vicende dell’assedio, data la mancanza di ogni accenno giornalistico all’Omaggio edito dalla stamperia Frugoni le cui pubblicazioni avevano trovato pronto annuncio nei giornali genovesi nel periodo dei primi mesi dell’assedio, laddove nei mesi piú avanzati tali annunci vengono a mancare. D’altra parte qualche peso può attribuirsi al fatto che il Foscolo negli ultimi mesi del ’99 è tutto preso, prima dalla composizione dei due scritti politici e dalla revisione dell’Ode a Bonaparte, poi dai suoi urgenti e disperati tentativi di risolvere, a Nizza – lontano dunque dagli altri suoi compagni dell’impresa poetica –, la sua difficilissima situazione. Mi sembra dunque assai probabile che l’Omaggio e l’Ode siano stati composti e stampati nei mesi della primavera del 1800 quando il Foscolo era ritornato (fra 10 e 15 marzo) piú stabilmente a Genova, viveva nella sodalità dei suoi commilitoni ed amici, poteva aver ripreso – pur nel prevalente impegno militare – una certa frequentazione della vita socievole genovese e aver letto il Pappagalletto del Ceroni con le sue allusioni alla vicenda della Pallavicini. Sicché tornerebbe assai probabile la vecchia datazione di marzo o tra fine marzo e aprile; al di là comunque non si potrebbe andare per le ragioni sopraesposte circa la morte del Fantuzzi (e l’accresciuta attività bellica tra fine aprile e primissimi di maggio quando, il 2 di quel mese, anche il Foscolo fu ferito sul Colle della Coronata e nella presa del Forte dei Due Fratelli), sia per quanto riguarda la composizione dell’Ode e degli altri componimenti (per la quale possono valere in gran parte gli argomenti del Bassi), sia per quanto riguarda la stessa pubblicazione dell’opuscolo, rispetto alla quale mi par da scartare invece la proposta dilatoria del Bassi.

23 Omaggio cit., pp. 5-8 (i versi citati sono alle pp. 5 e 7-8). Nel Pappagalletto (pubblicato intorno all’8 marzo 1800) il Ceroni (a parte un possibile accenno al Foscolo come «fringuello dell’Adria» che sospira per la bellezza di Annetta Viani Cesena) aveva già dedicato la strofe 21a alla Pallavicini, alla sua caduta e alla sua immaginata guarigione con versi che in parte sembrano anticipare il tema essenziale dell’Omaggio: «Vedi là quella candida Palomba / ch’ha le piume scomposte e rabbuffate? / Ahi, l’infelice d’alto ramo piomba / e ne porta le tempie insanguinate. / Come tanta beltà scontri la tomba / si dolgono le Grazie desolate: / gioia delle rivali in fronte è sculta, / ma non men vaga sorge e l’altre insulta».

24 Omaggio cit., pp. 9-17 (la sequenza citata è alle pp. 16-17 e le espressioni precedenti sono a p. 15).

25 Ibid., p. 25.

26 Ibid., pp. 3-4.

27 Ibid., pp. 27-31. I versi citati sono alle pp. 30-31.

28 Di «due altissimi madrigali» parlava il Flora per le due odi, accomunate «come prima e seconda parte di un dittico» da quella qualifica («madrigali») e da un suggestivo, ma vago e indiscriminato accenno alle loro immagini liete «anche se consapevoli di una cara menzogna» (in Storia della letteratura italiana, III, Milano 1940, p. 55).

29 Cfr. M. Porena, Fra Odi, sonetti e «Sepolcri», in «Atti dell’Accademia dei Lincei», 1937, pp. 420-421.

30 Cfr. G. Mazzoni, Ottocento, Milano 1934, p. 39.

31 Il Momigliano (Storia della letteratura italiana, Milano-Messina 19598, p. 412) affermava: «L’arte non raggiunge la potenza lirica se non nella rappresentazione del cavallo sfrenato, in cui sulla visione realistica si stende come la limpidezza d’una visione lontana». Malgrado l’importante ultima precisazione – piú suggestiva che interamente convincente – il Momigliano rimaneva essenzialmente all’impressione realistica e perciò, sul finire della descrizione del cavallo nella sua Antologia della letteratura italiana, Milano-Messina 19599 (p. 51), egli nota come stonatura la «strofa infelice» (vv. 61-66) per quella rima – «pancia» – turpe in tanta nobiltà di figurazione classica e per la freddura finale («ingorde si gonfiano... l’acque») e condanna la strofe seguente di Nettuno come «conseguenza della freddura che precede». Ed è naturale che il critico cosí faccia, data l’interpretazione di assoluta serietà realistica, psicologica, nobilmente classica che dà dell’Ode riprendendo e riportando piú volte passi dell’interpretazione del Fubini, cosí fine e impegnativa, ma anch’essa fondata sui sentimenti del poeta che «ci fa tremare per la creatura bellissima» durante la rappresentazione del cavallo e che trova pur con tanta finezza il sentimento unificatore dell’Ode non nell’amore o nella galanteria, ma in «un affetto meno personale e violento dell’amore, piú schietto e vivo della galanteria, la commozione per la femminilità, sentimento che la subita catastrofe rende meno fugace e piú acuto» (cfr. la grande monografia del Fubini, Ugo Foscolo, nuova ed., Firenze 1977, pp. 98 e 101). Per quanto riguarda il Momigliano mi par significativa la sua condanna delle due strofe citate dato che quel grande critico non si apre alla comprensione della poetica dell’ode e considera stonature e freddure parole, immagini, strofe che vanno, a mio avviso, intese nella loro voluta e compiaciuta dimensione di sfumatura ironica antirealistica e antipsicologica, nell’uso ironico e lieto della figurina di Nettuno che sarebbe stonatura solo se l’Ode avesse una direzione realistica e psicologica e di mito solenne e interamente serio, come sarebbe grave stonatura la iperbolica immagine delle acque se essa non volesse essere chiara espansione di sorriso sulla rappresentazione del pericolo della donna e sullo stesso richiamo ad altro mito divinizzatore. Molto piú lungo sarebbe il discorso sulle pagine del Fubini, sempre di singolare altezza di tono, e piene di suggerimenti sempre vivi (come quello sull’assenza di velleità drammatiche nell’Ode o quello sui raccordi con precedenti opere del Foscolo e tante altre indicazioni penetranti e spesso utilizzabili pure in una diversa generale funzione), ma, a mio avviso, non prive di certo fondo di psicologismo («tutta l’ode sta a segnare una intera dedizione del poeta alla donna celebrata») seppure trasposto in un’area di un singolare stilnovismo.

32 Di un «corteggio delle inserzioni mitologiche... troppo sovrabbondanti e alla fine troppo esibite» parla per l’Ode L. Caretti (in Storia della letteratura, Garzanti, VII, Milano 1969, p. 144) che ha nel suo brevissimo discorso un accenno stimolante a «modi di eleganza elusiva».

33 È la proposta del Goffis nel suo importante volume Studi foscoliani (Firenze 1942) che cercò di dare all’Ode una concezione filosofica, parlando, fra l’altro, di un incipiente vichianesimo e di miti raffiguranti «le vicende stagionali della natura» (ibid., pp. 302, 307 e 312).

34 Sí che nella prospettiva operativa dell’Ode sembra che il Foscolo riepiloghi insieme la propria storia personale fra apprendistato ed espressione poetica in anni precoci, ma presto rivisti come anni singolarmente fervidi di riboccante ricchezza poetica: si pensi al sonetto Alla Musa («pur tu copia spargevi alma di canto / su le mie labbra un tempo, aonia Diva / quando de’ miei fiorenti anni fuggiva / la stagion prima...») o all’accenno simile nei Frammenti su Lucrezio («Mi abbandonò prima degli anni giovanili il dolce spirito della Musa che prima mi iniziò nelle lettere ecc. ecc.», in Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808 cit., p. 239). Ma sarebbe errato puntar solo o troppo su questo aspetto trascurando le ragioni piú interne per cui tale esercizio (con i suoi resti di appoggio) era ora riutilizzato e la direzione in cui di quella zona giovanile si riprendeva il filone piú classicistico-amoroso in relazione al tema della vitalità (vitalità bellezza e poesia) di fronte al dramma vissuto.

35 A. De Giorgi Bertola, Operette, Bassano 1785, I, pp. 47, 177.

36 Cfr. sul Savioli e sulla sua poetica il mio saggio L. Savioli e la poetica classicistico-rococò, in Classicismo e neoclassismo nella letteratura del Settecento, Firenze 1963, 19763.

37 L. Savioli, Amori, Bassano 1782, p. XLVII.

38 Ibid., p. XXI.

39 Ibid.

40 Ibid., p. XLVIII.

41 Ibid., pp. LIV e XXIII.

42 Ibid., p. CI.

43 Ibid., p. XVII.

44 Ibid., p. XXX.

45 Ibid., p. XXXIX.

46 Ibid., p. XLVI.

47 Ibid., p. LI.

48 Ma si pensi al convergere in questi versi di sollecitazioni savioliane (gli ultimi versi citati appunto dal Savioli qui sopra) e del Pagnini (cui subito dopo ci rivolgiamo), nella traduzione dell’inizio di Bione Canto funebre di Adone morente («delle labbra fugge / la rosa»).

49 «Misto di fiori e d’oro / Inaco giú verrà da’ poggi erbosi / menando d’acque un bel lavacro a Palla» (citato dal Ferrari che ricorda però come Callimaco-Pagnini descrivano poi «la dea che si bagna nel fiume Eliconio»).

50 Certo non mancano riprese piú particolari e dirette da Virgilio, da Properzio (come in zona italiana da Tasso, per l’indicazione delle attrattive amorose degli occhi della Pallavicini che risentono dei versi tassiani del cinto di Armida, ma che possono anche presupporre un passo della Teogonia tradotto da G.R. Carli citato nel commento del Ferrari), ma il piano prevalente e dominante è quello tardosettecentesco di tipo classicistico-neoclassico galante, erotico, mitologico.

51 Sul Pagnini rinvio al mio saggio G.M. Pagnini traduttore neoclassico, in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit., ricco di accenni alle suggestioni di questo traduttore anche in rapporto alle Grazie.

52 «Allor che Citerea / vide già spento Adone, / con rabbuffato crine, / e scolorita guancia...» (op. cit., I, p. 368).

53 Nel volume II, alle pp. 73, 79, 80, 72, 73, 74. Per l’inchinarsi di Venere sul corpo di Adone scattarono nella fertilissima memoria foscoliana anche i versi del Dono del Parini «Ma sovra lui se pendere / la madre degli Amori...» e per il «sanguinoso petto» di Adone, nella stessa sequenza pariniana, i versi: «e squallido e di lento / sangue rigato il giovane». Per il verso dell’Ode «Or te piangon gli Amori» si può ancora richiamare il Canto funebre di Bione («sieguon gli amori a lagrimar Ciprigna...») e per un vago suggerimento ancora sui versi «Quel dí che insana empiea / il sacro Ida di gemiti» (nella redazione originaria era: «Quel dí che i monti empiea / di forsennati gemiti») si può pensare a versi del Pagnini nella sua traduzione di Catullo: «Ahi sventurato, cui levò di senno / con incessante gemito Ciprigna» (per l’originario «forsennati gemiti» e per tutta la scena si possono ricordare anche i versi del Fantoni: «per le campagne di cultori vuote forsennata s’aggira», in A Fosforo, in Poesie, a cura di G. Lazzeri, Bari 1913, p. 37). Come ben si vede, tutto è riassunto, scelto e rifuso (non dunque calco e metodo di intarsio e mosaico) in un modo ben originale e che pur lascia volutamente trasparire le tracce di un gusto volutamente utilizzato, superiormente mediato in una dimensione letteraria-poetica, ma alla fine decisamente poetica, che cosí meglio esprime le sue direzioni di poetica, di novità sulla base di un raccordo ad un gusto che comportava eleganza, edonismo, gusto ritmico-figurativo-mitico. Non dunque regressione, ma uso e superamento dall’interno di una direzione ben decisamente scelta in relazione al motivo conduttore della vitalità come bellezza, grazia, eleganza, tanto piú a suo modo impegnativo quanto piú coerente e, su tale base, disponibile a variazioni di componenti sentimentali mai separatamente valide.

54 Si tratta della «speranza lusinghiera», in Demetrio (atto I, scena XV).

55 La lettura del Lamberti fu assai assidua fin dagli anni precedenti, se nel sonetto «Cosí gl’interi giorni» (con una prima ben diversa redazione del 1796-1797) Foscolo ne riprese (dal Lamento di Dafni, di poco variandolo, allora, e reintegrandolo nel sonetto piú tardo) il verso: «Luce degli occhi miei, chi mi t’asconde», e che si impresse nella profonda memoria foscoliana in cui certi versi del poemetto lambertiano La popolazione di Santo Leuce appaiono non privi – fra altri ricordi-stimoli – di suggerimenti a notissimi, grandi versi delle Grazie nella descrizione dell’Atlantide: «... alle superne e belle / sedi varcammo, ov’è perpetuo il giorno, / e dove l’anno i mesi non alterna, / ma olezza e ride in primavera eterna» (Poesie e prose, Milano 1822, p. 7). Mentre nell’Ode il Bagno (op. cit., pp. 45-47) qualche accordo e spunto non manca, come quello del verso «per vie segrete e cupe» (riferito alle acque che dal bagno scendono a un fiume) per il verso foscoliano «per le profonde vie del tirreno talamo» (per le quali piú da vicino emerge però il verso del Fantoni, altro poeta essenziale nella formazione foscoliana, – «Surse dalle profonde voragini dell’onde», Il saggio amico, v. 39 cit. dal Ferrari). Anche «i ludi aspri di Marte» son suggeriti dal passo del Lamberti su Ippolito («lui che valse il formidabil gioco / fuggir di Marte...»), seppure l’espressione direttamente può aver ripreso «i fieri ludi» del Poliziano, Stanze I, 1. E cosí per «regina e diva» si veda del Lamberti «Cerer reina e Dea», in Il raggio estivo, op. cit., p. 76.

56 Cfr. per questi passi Lamberti, op. cit., pp. 48-50.

57 Per l’Ariosto cfr. O. F., I, 29. Per il Minzoni il celebre sonetto Quando Gesú (poi riportato dal Foscolo nei Vestigi della storia del sonetto italiano) in cui ricorre la rima «scosse» – «sovra i pié rizzosse» (nell’edizione pisana del 1802 era poi detto «scosse l’arcion»).

58 Cfr. Goffis, Studi foscoliani cit., p. 310.

59 Tragedie e poesie minori cit., p. 240.

60 Ibid., pp. 241-243.

61 Ibid., p. 244.

62 Ibid.

63 Ibid., pp. 250, 251.

64 Ibid., p. 256. La partenza.

65 Ibid., pp. 260, 261. La rosa tarda.

66 Ibid., p. 265. La sera.

67 Il tema delle «illusioni» (cosí anticipato nell’Ortis ’98 rispetto alla diversa collocazione estatico-drammatica nell’Ortis 1802) è tutto impostato sugli antichi che «si credevano degni de’ baci di Venere, che sacrificavano alla bellezza e alle Grazie, ecc.» (Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Gambarin, Ed. Naz., vol. IV, Firenze 1955, p. 7).

68 Cfr. Ultime lettere di Jacopo Ortis cit., pp. 45, 50 e 68 (in cui il dubbio di bestemmiare, assimilando nel proprio «culto» Teresa a Dio, è risolto dal rilievo che da Teresa «si spande beltà celeste ed immensa: beltà onnipotente!»).

69 Bellezza e «purità» di cuore e «divinità» di anima si integrano (ma poi al centro è l’«anima», come del resto nell’inno alla bellezza nella storia di Lauretta la «virtú» infelice è l’elemento che rende la bellezza «piú vereconda e piú cara», p. 48) e alla fine Jacopo si chiederà fin dove Teresa è creatura reale o immagine creata dalla sua fantasia (cfr. p. 63).

70 Si noti come – nella dimensione di quella lettera (esemplata su di una pagina del Wieland come io ho mostrato nel saggio Il «Socrate delirante» del Wieland e l’«Ortis») – spunti un «rattenuto sorriso» di Jacopo sulla bellezza della donna-dea che poi la «ragione» indica a lui come «antiveleno» rispetto alla «bellezza che partecipa del celeste» (p. 30). Nella Ode tutta questa trama di discussione fra ragione e cuore è totalmente assente, priva di ogni suo indizio, come è assente ogni polemica con l’alta società («il bel mondo») frivola e malvagia e con le attrazioni di una bellezza fine a se stessa, ché tutto è volto all’esaltazione della bellezza-vitalità senza discriminazioni di tipo morale, «virtuoso», spirituale. E si ricordi come in un articolo, L’amor platonico (nel «Genio Democratico» del 23 settembre 1798) il Foscolo (sia pure con un intento morale, ma sfaccettato assai ambiguamente) denunci – su di una via che sfugge alla piú diretta linea di tipo ortisiano – l’assurdità dell’«amor platonico» e affermi la forza naturale dell’attrazione fisica della bellezza femminile, irridendo ad un amore che «non esce dagli occhi, non comparisce sulle ridenti labbra riesce mutolo sulla lingua» (Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808 cit., p. 130) e prescinde insomma dalla realtà fisica della donna, su cui è impostata coerentemente tutta la linea di rappresentazione-esaltazione della bellezza nell’Ode in cui la bellezza-vitalità è fatta valere appunto soprattutto nella sua forza di attrazione sensibile, sensibilmente vitale, accresciuta dall’eleganza, dal suo fascino lieto, spregiudicato, sorridente, accresciuto dal riferimento al regno dei bei miti, essi stessi eleganti, gentili e preziosi, incentivo di una vitalità piena e pur tutt’altro che incolta, rozza e primitiva.

71 Già l’Algarotti (Opere, Venezia 1792, IV, p. 123) indicava rima, ritmo rapido e uso della mitologia come elementi essenziali alla poesia erotico-galante.

72 Si tratta della prima edizione delle Poesie di U. Foscolo (Ode alla Pallavicini e i primi otto sonetti) pubblicata nel tomo IV del «Nuovo Giornale dei Letterati» di Pisa, 1802, da cui il testo foscoliano fu estratto in opuscolo, Pisa 1803, senza diversità, tanto che esso riporta anche due sviste tipografiche («reti» per «reni» e «rizzose» per «rizzosse»).

73 Sono l’edizione De Stefanis e l’edizione definitiva Agnello Nobile, tutt’e due del 1803 e dunque posteriori alla pubblicazione dell’Ortis 1802 e alla composizione della seconda Ode che in quelle edizioni è compresa.

74 Già il Fubini nella grande monografia foscoliana del ’28 notava che «alcuni fra gli accenti piú intensi dell’ode genovese» si trovano soltanto nell’edizione del 1803 e puntava acutamente soprattutto sulla nuova forma del verso sotto ricordato.

75 Poi, nel 1803 il titolo fu privato della prosastica indicazione topografica e modificato quanto al «caduta di cavallo» (in «caduta da cavallo»).

76 Per esigenza di un suono piú elegante il poeta scioglieva invece, all’inizio dell’undicesima, il troppo raddensato «sennon che» in «se non che». Non sempre la linea di correzione-rinforzo del ritmo è seguita coerentemente. Cosí all’inizio della seconda strofe la sostituzione di «Il dí» a «Quel dí» è tentativo sbagliato e le edizioni del 1803 ripristinano giustamente la prima forma piú elastica, densa, adatta a rilevare ritmo e rilievo dell’avvenimento mitologico memorabile. Anche nella strofe undicesima il cambiamento al singolare di «onde» in «onda» e di «profonde vie» in «profonda via» non appare chiaramente giustificato e la prima lezione tanto migliore venne ripristinata nelle edizioni milanesi del 1803. Ugualmente nella decima il cambiamento di «flutto» in «lido» verrà abolito nell’edizione del 1803, ripristinando la prima forma. E cosí, nella quindicesima, il tentativo di accrescere la brusca conclusione catastrofica del finale («precipitar la Dea») cambiando «insanirono» in «insanivano» venne poi abbandonato nel 1803 riportando la decisività del passato remoto al suo momento giusto, al centro della strofe.

77 Cosí in particolare la collocazione, nella strofe decima, di puntini sospensivi prima dell’immagine volutamente antropomorfica delle acque che si gonfiano «ingorde», dimentiche che dal loro seno nacque una dea, Venere, sottolinea la singolarità e la funzione di compiaciuta iperbole che, mentre allude a una comune natura divina di Venere e della donna, fa balenare un sorriso su tale assimilazione, come un sorriso aleggia sull’ingordigia delle acque, mentre accresce e ridimensiona insieme, come uno «scherzo» spregiudicato ed ardito, il clima «sacro» della divinizzazione della donna (entro cui pure parzialmente e ambiguamente vive il germe di una ben piú persuasa ripresa di tale processo). Tanto meno importante è la correzione, nella stessa strofe, di «sino alla pancia» in «fino alla pancia», il cui mantenimento nelle edizioni milanesi può comunque indicare che, in quel punto cosí discusso dalla critica come sconvenientemente basso, il Foscolo intendeva accentuare con il piú comune «fino» una voluta insistenza su di un’espressione piú realistica adatta alla mescolanza di forme auliche e realistiche che anche nelle ultime redazioni egli intendeva, seppur piú sobriamente, mantenere.

78 Sempre secondo la numerazione del componimento originario (e della redazione pisana).

79 Pura correzione grammaticale poi, nella settima strofe, la sostituzione di «agghiacciano» per «agghiacciono».

80 Tutto quanto l’edizione De Stefanis aveva corretto venne autorevolmente e definitivamente confermato nella successiva edizione Agnello Nobile che in piú apportò ancora due correzioni di vario peso: quella al verso secondo della strofe quinta («che fiori dall’inachio / clivo cadendo versa» al posto di «che fior, dall’eliconio / clivo, cadendo versa» per una maggior fedeltà ai versi-base di Callimaco nella traduzione del Pagnini con il loro preciso riferimento al fiume Inaco) e quella, ben piú rilevante, al secondo verso della strofe sesta che ancora nella De Stefanis manteneva la forma originaria («armoniosi accenti / dalla bocca volavano»), dove la forma «dal tuo labbro» risulta insieme piú precisa e piú eletta, e piú suggerita dai toni della seconda Ode.

81 Secondo (come si è già fatto nella nota precedente) la numerazione delle edizioni 1803 che hanno, come si è visto, una strofe in piú (quarta e quinta al posto di un’unica strofe) rispetto alle redazioni precedenti.

82 «Perché non dell’Aonie / seguivi, incauta, l’arte» invece di: «Perché emulasti, incauta / non dell’Aonie l’arte».

83 Si allude al richiamo del Baldacci alla pittura di «alto soggetto»: piú incerto è il preciso riferimento alla maniera di Guido Reni e ai presentimenti dei cavalli di Géricault, pur suggestivo (quest’ultimo accenno) pensando all’epoca napoleonica in cui l’ode – specie nella sua revisione 1803 – si addentra (cfr. U. Foscolo, Poesie, a cura di L. Baldacci, Bari 1962, p. XXI). Giusto comunque è anche lo stupore del Baldacci di fronte alla tesi critica di una preoccupazione veramente realistica nella rappresentazione del cavallo imbizzarrito. Ma per il resto il rapido cenno all’Ode appare troppo risolto solo in chiave di «maniera» e lo stesso accenno sopra citato circa la rappresentazione del cavallo va, a mio avviso, precisato in una «maniera» falso-grandiosa e dunque, in realtà, in una funzione diversa da quella direttamente proposta dal critico.

84 E certo una interpretazione dell’Ode come quella qui proposta non manca di fare avvertire nell’Ode germi di quel risvolto della complessa personalità foscoliana che è costituito in parte dalla prova frammentaria del Sesto tomo dell’io e che poi troverà consistenza profonda nella direzione di tipo «didimeo». Per il Sesto tomo dell’io si accoglie la datazione 1801 sostenuta dal Fubini.

85 Prose varie d’arte, Ed. Naz. a cura di M. Fubini, Firenze 1951, p. 19.

86 Cfr. Ep., I, pp. 334, 210, 215.

87 Cfr. Ultime lettere di Jacopo Ortis cit., p. 278. È l’ultima lettera a Teresa prima del suicidio: «No, mia Teresa, non sei tu cagione della mia morte. Tutte le passioni disperate, le disavventure delle persone piú care al mio cuore, gli umani delitti, la sicurezza della mia perpetua schiavitú, e dell’obbrobrio perpetuo della mia patria venduta... tutto insomma da gran tempo era scritto; e tu, donna celeste, potevi soltanto raddolcire il mio destino; ma placarlo, oh! non mai. Ho veduto in te sola il ristoro di tutti i miei mali; ed osai lusingarmi; e poiché per una irresistibile forza tu mi hai amato, il mio cuore ti ha creduta tutta sua: tu mi hai amato, e tu m’ami... ed ora che ti perdo io chiamo in ajuto la morte».